IL RITIRO DI HARDWELL E' LA FINE DI UN CICLO

LA MUSICA CAMBIA IN FRETTA, E LA GLORIOSA MA BREVE CARRIERA DEL DJ OLANDESE E' LO SPECCHIO DI UN PERIODO MUSICALE CHE E' ARRIVATO A FINE CORSA

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Nel 2010 la scena dance era dominata da storici giganti: David Guetta, Tiësto, Armin Van Buuren, Carl Cox, Swedish House Mafia e amici. Il termine “EDM” non era stato ancora coniato – ma era nell’aria – e il mondo dei dj era ancora lontano dal concetto di teen idol. Ma c’era grande fermento. Una brezza elettronica del tutto nuova soffiava dall’Olanda e dalla Svezia, iniziando a risuonare nelle cas(s)e dei giovani di tutta Europa e non solo, scoprendo i primi assi di quella che sarebbe stata una lunga e gloriosa partita. Quando si parla di musica mainstream, è sempre una questione di cicli. Fin da quando possiamo fissare le origini di un mercato pop-radiofonico, l’offerta delle case discografiche ha sempre seguito naturali archi temporali, e le tendenze musicali specifiche difficilmente hanno superato i dieci anni di vita. L’importante ruolo di internet, che ci ha consentito di poter usufruire di tutto e subito, ampliando allo stesso tempo le possibilità d’accesso, ha marcatamente accorciato i tempi necessari alle correnti musicali per raggiungere l’exploit globale, ma nello stesso momento ha avvicinato il punto di saturazione dell’offerta. La grande musica resta sempre, quel che cambia è la veste con cui si presenta. Per questo, in uno dei nostri ultimi contenuti a riguardo, non abbiamo parlato mai di “morte dell’EDM” ma di una mutazione genetica della stessa. Negli ultimi vent’anni, dalla trance all’italo dance, dalla progressive house al reggaeton, la definizione di “dance pop” ha sempre visto sfaccettature mutevoli, e storicamente la mutazione avviene in cicli musicali tra i cinque e i dieci anni, ovviamente tenendo in considerazione esclusivamente la scena top selling. Il quinquennio 2010-2015 ha parlato la lingua della cosiddetta big room house, una variante dell’electro house che ha rapidamente consentito ad una serie di nomi mastodontici di consolidarsi nella scena dance e contribuire con apporto essenziale alla definitiva affermazione dell’industria, al punto che oggi – nel 2018 – viene davvero difficile immaginare una hit che non possieda un contributo elettronico, o che non veda un dj tra le file dei riconoscimenti. La big room è stata forza centrifuga del circuito dei festival musicali, linfa vitale per portali come Beatport e Soundcloud, una vera e propria onda anomala che nel giro di pochissimo tempo è divenuta tendenza globale. La già citata Olanda nel 2010 si è fatta portabandiera di tutto ciò, in contrapposizione con quel che avveniva in Svezia, dove la progressive house firmata Swedish House Mafia, Alesso, Laidback Luke e compagnia trovava terreno fertilissimo.

Hotspot fondamentale – quanto paradossale – si è fatto uno sperduto paesino olandese, dal nome di Breda. Erano i primissimi mesi del 2011 quando Tiësto presenta una nuova collaborazione con un ragazzino compaesano che si fa chiamare “DJ Hardwell”. Il titolo è ‘Zero 76’, prefisso proprio di Breda, e fin da subito spacca in due le dance chart di tutta Europa mettendo il giovane Hardwell sotto i riflettori. Per lui un sogno che si avvera. C0me racconta il documentario ‘I Am Hardwell’, il piccolo Robbert van de Corput sognava i grandi palchi di tutto il mondo fin da tenerissima età, e la sua grande passione venne coltivata a suon di Tiësto – suo primo idolo – così come Armin Van Buuren, Chuckie e altri connazionali. I due anni successivi li racconta la storia. Il 2011 è un anno molto prolifico, con l’uscita di brani come ‘Encoded’, ‘Cobra’, ‘Beta’ con Nicky Romero, ‘The World’ sotto l’effige della Kontor Records: pezzi rimasti nella scaletta dei suoi dj set fino a tempi recentissimi. Quindi il 2012, l’anno delle grandi hit: ‘Spaceman’ (disco d’oro negli Stati Uniti) ma soprattutto ‘Apollo’, cantata da Amba Shepherd e triplo platino negli States. Un anno pieno di show in tutto il mondo, ospitate televisive e l’inizio della scalata della DJ Mag Top 100 Djs, iniziata dalla ventiquattresima posizione e al sesto posto a fine 2012. L’anno dopo la vince, e si replicherà nel 2014. Nel frattempo nasce la Revealed Recordings, casa delle hit del 2012 e di un ricco roster capeggiato dagli olandesi Dyro e Dannic, inizia un tour mondiale e va in scena il documentario ‘I Am Hardwell’, a raccontare la storia del bambino cresciuto sulle orme di Tiësto.

Gli ultimi quattro anni di Hardwell, nonostante l’enorme e indiscutibile popolarità, non hanno saputo tenere alta l’asticella della qualità offerta, ed in molti casi ci siamo ritrovati ad ascoltare le sue nuove uscite con l’amaro in bocca. La potenza della big room, paragonata alle strade intraprese dal dance pop negli anni successivi, si è trovata con le spalle sempre più strette e molti dei suoi grandi esponenti hanno saputo adattare il proprio suono: Martin Garrix, Dimitri Vegas & Like Mike, Steve Aoki, Nicky Romero, Afrojack. Ma non Robbert, se non in (fortunatamente) rarissimi casi, quasi tutti stroncati dalla critica. Il suo album datato 2015, ‘United We Are’, non ha del tutto convinto – nonostante alcune presenze pop – e negli anni successivi l’olandese ha fatto diversi esperimenti, tra cui ritorni a suoni più originari del filone big room, qualche scivolone deep house e parentesi hardstyle. Quindi la notizia che ha sconvolto i fan di tutto il mondo: Hardwell si ritira a tempo indeterminato.

In realtà c’è molto poco da essere sconvolti. Prima di tutto, la pausa dell’olandese sembra ricondursi all’esagerato stress fisiologico del jet set, in più occasioni da noi affrontato come il maggiore pericolo per la salute mentale dell’artista, motivo per cui è lecito aspettarsi un ritorno in console nel giro di un anno o due. Aldilà del suo ritorno, il ritiro di Robbert e i suoi ultimi quattro anni non all’altezza di quelli che hanno segnato la sua ascesa vanno a simboleggiare quella che è la genuina e inevitabile fine di un ciclo. Anche alla luce di ciò, unitamente a quanto detto all’inizio di quest’analisi, il 2018 si sta dimostrando sempre più come un anno di transizione. Dodici mesi di identità poco marcate, di metamorfosi, di cambi di scenari. Storicamente periodi come questo possono essere visti come pagine buie della storia della musica, ma in realtà sono fasi fertilissime in cui le porte sono spalancate a chi vuole, ancora una volta, cambiare le regole del gioco. Di big che devono tornare in scena ce ne sono, ma potrebbe prendersi la responsabilità qualcuno che ancora non conosciamo.

FONTE: djmagitalia