ADDRESS Comune di Tufo - Tufo - 83010 - Avellino - CAMPANIA
INFO Storia del comune
STEMMA DELLA FAMIGLIA
DEL TUFO ANCORA PRESENTE SUL CASTELLO
GLI INIZI
Anno del Signore 888. Il principe beneventano longobardo, Aione II, decide di costruire una torre a difesa del castello di Tufo. Aione II, considerando Tufo utile come baluardo per la difesa della capitale del principato longobardo, lo aggrega alla circoscrizione di Benevento.
Abbiamo, in questo modo, una duplice notizia: la nascita di quel che, nel 1821, diventerà comune di Torrioni, l’altro comune storicamente legato al Greco di Tufo (turris Ayonis = torre di Aione), e quella della preesistenza di Tufo a quella data.
Da quanto esisteva? Fondato da chi?
Sappiamo che l’uomo è presente da molte migliaia d’anni in Irpinia, ce lo dice l’archeologia, ma da quanto tempo Tufo è abitato?
Nelle passeggiate verso San Paolo che compivo da ragazzino, all’uscita sulla provinciale della strada vicinale Bussi, in un taglio della stessa provinciale d’una costa, era visibile uno strano buco nella terra.
“Una tomba romana, trovata anni faâ€, era la risposta degli adulti alla mia curiosità infantile. Si narra, ed è una memoria abbastanza sicura, che, quando fu costruito il ponte in cemento armato che collega con il bosco di Prata di Principato Ultra (altro paese della DOCG) , fu rinvenuto un cunicolo d’acquedotto sannita-romano. Un temerario vi entrò e riportò fuori un iscrizione epigrafica che purtroppo sparì misteriosamente quasi subito. Il Fiume Sabato,che quel ponte attraversa, prende il nome dai Sanniti che tra loro si chiamavano Safinim.
Sembra, però, che dovremo aspettare ancora affinchè il caso ci dia più luce prima di quel fatidico anno 888 dalla redenzione del mondo.
Quell'anno, il nemico erano i bizantini contro cui il principato longobardo lottava ora in difesa ora in attacco. La lotta ormai durava da anni e durerà ancora fino all’arrivo dei normanni che, trovando sfiancati gli uni e gli altri, imposero a tutto il mezzogiorno il loro dominio, ricacciando l’impero di Bisanzio (Costantinopoli) nella penisola balcanica.
Tufo era dunque un passaggio nella valle del Sabato, era ed è a metà strada tra Avellino e Benevento, un castello, un fortilizio strategicamente importante a difesa dell’una o dell’altra città , secondo i padroni del momento.
Le testimonianze più evidenti del passato longobardo sono due: la grotta di San Michele, di cinquanta cubiti di lunghezza, con annesso "romitorio di monaci" (dicono i documenti e le pietre) risalente a quel periodo, e la devozione del paese a San Michele ancor oggi. Chi si trovasse a Tufo l’8 maggio ci resti fino a sera, vedrà una rappresentazione popolare sulla cacciata degli angeli ribelli da parte dell’arcangelo. Tutti conoscono tutte le parole della recita e ogni passaggio è applaudito bene o male interpretato non importa, e se gli attori dimenticano le parole (ma non succede), la folla è pronta a recitarle. Abbiamo lasciato Tufo come un baluardo militare sulla strada romana Antiqua Major e li lo ritroviamo con l’arrivo dei Normanni.
I normanni, ovvero gli uomini del nord, sono i vichinghi che s’erano insediati nel nord della Francia, dopo secoli di scorrerie, alla confluenza della Loira con l’Atlantico.
Non mancavano di spirito guerresco e d’avventura, da buoni vichinghi, sia pure resi più integrati al mondo europeo meridionale dal vivere nel feudo francese a loro concesso da un re di Francia, Carlo il Grosso, stremato dai loro continui attacchi. Il duca di Normandia conquista l’Inghilterra e sconfigge nel 1066 ad Hasting il re sassone. Da quel momento nasce l’Inghilterra.
Quasi negli stessi anni, altri normanni conquistano in poco tempo quello che sarà per novecento anni circa il Regno delle due Sicilie.
Sappiamo che Tufo dal secolo XI è in mani normanne. Si narra che la famiglia nobile che prende il nome dal paese (de Tufo, de lo Tufo, del Tufo) deriverebbe da Ercole Monoboi un compagno d’arme di Roberto d’Hauteville, detto Roberto il Guiscardo. Ma il primo nome di feudatario di Tufo che incontriamo è quello di Raone del Tufo, lui ha il feudo negli anni in cui il fratello di Roberto d’Altavilla, Tancredi sbaraglia bizantini e Arabi prima in Calabria e poi in Sicilia. All’epoca nessuno lo sa, ma sta nascendo uno stato europeo e questa nascita coinvolgerà figure di spicco dell’intera Europa, addirittura con uno scisma e lo scomodamento, tra imperatori, re papi e antipapi, d’un pezzo da novanta come San Bernardo di Chiaravalle.
Abbiamo lasciato Tufo a difesa di Benevento e qui lo ritroviamo nell’anno 1119, saldamente in mano a Raone del Tufo.
La politica d’espansione normanna alla fine si scontrò con gli interessi di Gregorio VII, quel papa che aveva costretto all’umiliazione di Canossa l’imperatore del Sacro Romano Impero.
Alla fine però il Papa riuscì a conservare solo la città di Benevento e poco più, mentre Roberto il Guiscardo ottenne l’annessione del resto del ducato beneventano.
Ma, di lì a poco, tra i capi normanni alla morte sia di Roberto che di suo fratello Tancredi, scoppia la guerra per la supremazia e da questa lotta nasce il Regno. Tufo ne è coinvolto.
Tufo, coi longobardi, era nella sfera d’influenza di Benevento. Diventata questa città papale,ed essendo Avellino ancora città longobarda fino al 1112, Tufo e i suoi feudatari normanni giuravano fedeltà al conte normanno di Ariano. Raone del Tufo quindi è nella lotta al fianco del suo duca contro il duca Guglielmo II il quale è sostenuto dal conte di Alife e anche dal connestabile di Montefusco (amche questo comune della DOCG), Landolfo de la Greca. Il Conte di Alife subito si mosse ad assediare Tufo. Ma fu respinto da una difesa saldissima.
Poco dopo attacca il castello anche il connestabile di Montefusco, forte dell’espugnazione dei castelli di Montemiletto e Montaperto. Ma le macchine d’assedio e gli sforzi di vincere la resistenza furono inutili. Talmente inutili che il Connestabile passò ad atti di terrore, quali la devastazione dei campi e la distruzione delle vigne.
Notiamo questo particolare che le cronache di allora annotano a margine degli eventi: Tufo aveva vigne, tante, se la loro distruzione è degna di nota. È la prima notizia della vocazione attuale del nostro territorio.
Altre battaglie si svolgono fino all’avvento di Ruggiero II il primo re del mezzoggiorno, almeno un altro assedio stringe il paese, Tufo rimane glorisamente inespugnato.
Durante tutti questi sovvolgimenti San Guglielmo da Vercelli, longobardo del nord Italia, fonda la sua congregazione religiosa a Montevergine. Nel 1139, ancor vivo San Guglielmo, un tufese, tale Costantino figlio di Ruggiero, dona al Santuario una casetta e un campo. Indovinate di che? Ma di viti, ovviamente.
Che tipo di viti? Il famoso Gerco di Tufo? O più probabilmente l’onnipresente aglianico. O forse il fiano di Avellino della limitrofa reale della omonima DOCG. Non lo sappiamo. Sappiamo che la famiglia di Marzo vanta il trapianto del vitigno del greco a cura di Scipione Di Marzo che, in fuga dalla peste del 1648, scampa in Tufo da San Paolo Belsito, sulle pendici del Vesuvio.
Sul sito della famiglia Piatti, feudatari di Tufo nel sec.18°, interessanti notizie su Tufo e Torrioni e sulle famiglie dei due paesi
Visita il sito web
1861
MALEDETTO LO SISSANTA
Invitato come sindaco a Gaeta per il 150.mo dell’assedio sanguinoso che sancì la scomparsa del regno delle Due Sicilie, scopro che Tufo è stata invitata per essere stato uno dei luoghi di rivolta antisabauda. Una confusa notizia in merito, in realtà , l’avevo avuta, per la prima volta e assai confusamente, da Ermete De Renzi, che mi diceva di coinvolgimenti di suoi parenti, minacciati di fucilazione dalla Guardia Nazionale di Altavilla, a causa di una bandiera borbonica inalberata sulla torre di destra della Chiesa Madre.
Mi sono allora incuriosito e ho trovato qualche notizia in: LA RIVOLTA DI MONTFALCIONE, di Edoardo Spagnuolo, ed. Nazione Napoletana, 1997, Napoli.
I fatti tragici di Montefalcione, con fucilazioni sommarie e crudeltà sono noti, meno noto è che la rivolta si estese fino a Tufo e molti altri paesi, in un incendio breve e folgorante; a reprimerla furono soprattutto le truppe “ dei fratelli italiani†dei mercenari ungheresi al comando del Governatore di Avellino De Luca, uomo alquanto spietato.
"Evviva Francesco II! Si fotta V1ttorio Emanuele e Garibaldi! Abbasso i galantuomini! Viva il popolo basso!".
I napoletani, intesi come abitanti delle Due Sicilie, amarono molto la figura di Francesco II e di Maria Sofia di Borbone, sovrani sfortunati e per questo assimilati a popolani. Il loro comporftamento eroico tra i soldati di Gaeta spiega il fosso cui fa riferimento la filastrocca di seguito: è il fosso della trincea di Gaeta.
“Garibaldi è troppo gruosso
E nun po’ zumbà stu fuosso
Francìschiello è piccirillo
e zompa comma nu cardìllo!â€
Erano quelle innanzi le grida e le ingenue canzoni in auge tra i popolani di Tufo, Torrioni e Petruro Irpino, per qualche giorno dal 7 luglio 1861.
DON CICCILLO E LA RIVOLTA DI TUFO
Nel circondario di Tufo, nei mesi precedenti, erano stati incriminati e arrestati numerosi paesani per "voci sediziose", erano: Pasquale e Carmela de Vito, Andrea, Michele e Clementina de Pasqua, Andrea de Pasqua di Carmine, Angela Olivieri, Michele Luongo, Modestino nigro e altri (Avellino, Archivio di Stato, Sentenze della Gran Corte Criminale b.206, Marzo 1861)
Un gruppo di venti o venticinque soldati sbandati decise allora di riparare in montagna per costituire un accampamento militare. Tra questi vi erano: Francesco Cillo, Michele Pizzano, Sabato e Modestino Pirone, Domenico e Luigi Molinaro e Pellegrino Meoli; Pasquale Pisano di Altavilla fu uno dei principali animatori della rivolta (Avellino, Archivio di Stato, Sentenze della Gran Corte Criminale b.206, Marzo 1861).
Il 7 luglio, probabilmente in accordo con Montefalcione, si passò all’azione e tutta la colonna penetrò verso mezzanotte in paese, determinando la sollevazione degli abitanti. Gli ex militari erano capitanati da Francesco Iannaco di statura bassa e con un folto mustacchio, Iannaco godeva di gran rispetto ed era chiamato dai compagni ora "maggiore" ora, più semplicemente, "don Ciccillo". Don Ciccillo era nato a Mercogliano l’8/11/1833 da Domenico e donna Carmina di Gennaro, poco prima del 1861 Iannaco si era sposato a Tufo, dove era venuto a risiedere.
Al grido di "Viva Francesco II! Viva Maria Sofia! Abbasso l’Italia! Abbasso Vittorio Emanuele!", una folla di insorti attaccò il posto di guardia di Tufo, prendendo tredici fucili, infrangendo i quadri di Vittorio Emanuele e Garibaldi e abbattendo lo stemma sabaudo sovrapposto all’ingresso. Bruciò la bandiera tricolore in presenza del capitano della Nazionale, Michele Barile, sostituendola con il vessillo borbonico. Occupò quindi la casa municipale, distruggendo le insegne sabaude ivi presenti. Fu infine sbriciolata l’insegna sabauda che era sul botteghino di sali e tabacchi di Luigi Luongo. Vicino al posto di guardia era la casa dell’ex sindaco Antonio Luongo. Centinaia di popolani si radunarono sotto il suo balcone chiedendogli le armi che custodiva, gridando che erano proprietà di Francesco II. Il sindaco, senza pensarci due volte, diede loro cinque fucili. Assaltarono poi la casa di Abele Luongo, luogotenente della Guardia Nazionale, consigliere comunale e assessore. Gli presero un fucile e una pistola. Luongo insieme col cancelliere comunale Angelo de Vizia andò a lamentarsi dal capitano sollecitandolo a fare un rapporto dell’accaduto, ma si sentì rispondere: "Se vuoi tu una palla in petto sta bene, ma io non la voglio" (Avellino, Archivio di Stato, Corte d’Assise, b.1, ff.11, 12). Abele Luongo fu poi accusato dal sindaco di aver fomentato la rivolta. In realtà si trattò di una ritorsione dovuta alla rivalità esistente tra i due, in quanto entrambi concorrenti a cariche comunali.
Gli insorti tolsero le armi a vari altri individui, tra cui un tal Giuseppe Troisi. Piazzarono infine la bandiera su una croce che era dinanzi alla chiesa. La mattina del giorno 8, non appena aprì la chiesa per suonare il mattutino, il sagrestano Francesco Grosso fu circondato da molte persone. Non è chiaro se fu proprio lui o un tal Sabino Olivieri a salire sul campanile per inalberare il vessillo borbonico. Nel frattempo, mentre gruppi di popolani presidiavano le vie tra grida di giubilo, una ventina di soldati sbandati percorreva in lungo e in largo le campagne circostanti per arruolare altri volontari. Trovarono un tal Alfonso Lepore, soldato borbonico sbandato di Torrioni, che accettò di seguirli.
A sera l’ex sindaco e i suoi familiari furono costretti da don Ciccillo, armato di pistola, a baciare i ritratti dei Borbone che nel frattempo erano stati collocati davanti al posto di guardia per essere poi sistemati all’interno, su un altarino.
All’una di notte del giorno 8, un centinaio di persone mossero da Tufo, occupando verso le due Torrioni (Avellino, Archivio di Stato, Corte d’Assise, b.1, ff.11, 12), dove si unirono ad altri del luogo. Tra questi citiamo: Pellegrino Meoli, Giovanni Carpenito e i soldati sbandati Felice Altieri, detto Bronzino, e Alfonso Lepore (Avellino, Archivio di Stato, Corte d’Assise, b.1, ff.11, 12). Si rinnovarono le scene accadute il giorno prima a Tufo: al grido di "Viva Francesco Il e Maria Sofia! Abbasso l’Italia e Vittorio Emanuele!", i popolani assaltarono la cancelleria comunale, distruggendo ovunque le insegne sabaude. Nel posto di guardia presero dieci fucili, per i quali, don Ciccillo, con grande lealtà , rilasciò una ricevuta firmata.
Una trentina di individui accerchiarono il sottotenente Roberto Spadera chiedendogli le armi e obbligandolo a precederli nella casa del capitano don Donato Leo, dove presero dieci fucili e altrettanti pacchi di cartucce. Per ottenere quanto richiesto don Ciccillo dovette anche questa volta firmare una ricevuta che fu successivamente consegnata alle guardie nazionali sopraggiunte da fuori. Una guardia lacerò il foglietto, ma un frammento fu raccolto da don Filippo, zio di don Donato che successivamente lo consegnò al potere giudiziario; in esso si leggono le ultime righe “delle Nazione del Comune di Torrioli Lì 8 luglio 1861 - Il Capo della Colonna. Francesco lannaco 1° sergenteâ€. Questo frammento è conservato negli incartamenti processuali appena citati.
Serafino Centrella, guardia nazionale, che si trovava in quel momento a passare davanti all’abitazione di Don Donato, fu obbligato dalla folla a recarsi nella sua masseria per prendere il fucile e consegnarlo. I paesani, preceduti dal sottotenente e dal capitano, si diressero poi a casa del sindaco Pellegrino Donnarumma, che, sentendo le voci dei due militari, si convinse ad aprire il portone. Per costringerlo a consegnare le armi (un fucile con la baionetta, uno "alla paesana montato a fulminante" e quaranta cartucce), don Ciccillo lo colpì con uno schiaffo e un altro gli puntò la baionetta alla gola.
Non fu risparmiata l’abitazione del cancelliere Carmine Centrella, dove, non avendo trovato i quadri sabaudi, requisirono un fucile, ritirandosi al grido di "Viva Dio! Viva Francesco II! Viva Maria Sofia!". In nome di Francesco II, chiesero le armi anche al supplente giudiziario Andrea Centrella, che era a letto convalescente, ottenendone però soltanto del vino. E se ne andarono persino ringraziando, dicono i documenti processuali
Il caporale Michele Cennerazzo fu costretto consegnare la bandiera tricolore, che subito si provvide a bruciare dinanzi alla chiesa, mentre sul campanile veniva esposta una bandiera borbonica. Verso le 3 fu la volta del cassiere comunale Mariano Ferrara e di Michele Consolazio, che furono entrambi disarmati. A notte fonda la guardia Serafino Centrella, il sottotenente "tutto tremante" e il capitano furono costretti a seguire i rivoltosi in Petruro. Don Donato riuscì a defilarsi con la scusa che doveva accudire il decrepito zio arciprete don Filippo e due ragazzi di tenera età che aveva lasciato piangenti.
Don Ciccillo guidò la sua allegra brigata in direzione di Petruro, dove giunse verso le 4 e 45 di notte. Qui, unitisi con alcuni del luogo (Marzio, Pietro e Gioacchino Donnarumma, Serafino Centrella e Francesco Covino), i rivoltosi si recarono a casa del capitano Michele Zarrella, dove, presentandosi come soldati sbandati che giravano per Francesco II, si fecero consegnare venti fucili da caccia. Don Ciccillo, da capobanda galantuomo, rilasciò la solita ricevuta (Ndr: la galanteria di don Ciccillo non si comprende se non si pensa che con quelle ricevute scagionava gli avversari dalla possibile accusa di aver favorito gli insorti e quindi far loro pagare amare conseguenze ai sabaudi). La ricevuta di don Ciccillo fu successivamente consegnata dal capitano al comandante della colonna mobile di Ceppaloni, don Francesco Parente, accorso per ristabilire l’ordine.
Il medico e sindaco don Angelo Troisi aveva inviato ottocento ducati a Garibaldi, suscitando il risentimento della gente. Fu per questo che alcuni gridarono che a loro ne doveva donare almeno quattrocento, altrimenti lo avrebbero ucciso e gli avrebbero messo a fuoco la casa. Dinanzi a questi propositi il capitano, che non voleva essere coinvolto in azioni che recassero danni al sindaco, ottenne assicurazione da don Ciccillo che non sarebbe stata commessa alcuna violenza. Nel frattempo era accorso anche il cancelliere comunale.
Il sindaco, secondo la deposizione resa dallo stesso don Angelo Troisi, "stando a dormire nella propria casa, venne destato dal forte picchiare del portone, con minaccia d’incendio ed altro qualora non si fosse aperto. Stiede titubante in prima, ma poi avendo conosciuto la voce del Capitano e del Cancelliere Comunale, si affaccio al balcone, e vide che i medesimi erano accerchiati da una quantità di persone armate, portandosi da una di esse anche un fanale. Dietro le assicurazioni fatte da detti Capitano e Cancelliere di poter aprire senza timore, discese nel cortile ed aprì il portone. In un subito ed a guisa di sorpresa, dietro questi ultimi entrarono pure 5 in 6 individui armati tutti, i quali si annunziarono soldati borbonici (Avellino, Archivio di Stato, Corte d’Assise, b.1, ff.11, 12). Il Troisi fu costretto a cedere uno dei due fucili che possedeva, sette/otto e mezzo rotoli (450 grammi) di polvere. Incredibilmente i simpatici paesani gli concessero di tenersi l’altra arma per consentirgli di non restare senza difesa.
Ovviamente tal liberalissimo Sindaco collaborò in seguito con grande zelo ad accusare i poveri popolani.
Secondo la voce pubblica verso sera alcuni abitanti di Petruro erano partiti dal paese per unirsi agli sbandati. Contemporaneamente numerose guardie di Torrioni, guidate dal capitano don Donato Leo, si erano mosse per ispezionare le masserie poste in direzione di Tufo con l’intenzione di scovare i fuoriusciti e procedere all’arresto di eventuali conniventi. Il caso volle, però, che le parti si invertissero. Poco lontano dall’abitato, infatti, le forze dell’ordine vennero intercettate da una colonna di sbandati, disarmate e condotte a Tufo. Qui, nel frattempo, si festeggiava con luminarie ed altro, tra continue e fragorose grida di evviva, il ritorno del governo patrio.
Gli incauti militari di Torrioni, dopo essere stati costretti ad accendere le candele dinanzi ai quadri di Francesco e Maria Sofia, furono rispediti a casa: il solito buon cuore dei paesani!
Il giorno 11 il circondario di Tufo (dove la sera del 10 ancora si festeggiava per Francesco II) fu investito dall’accorrere di guardie nazionali da Altavilla. Ceppaloni e San Giorgio, che posero fine alla rivolta.
fucilazione di Vincenzo Petruzziello a Montefalcione, 1861
I seguenti incriminati per i fatti di Tufo furono per lo più incarcerati.
TUFESI
1) Angelo Bottiglieri; 2) Antonio Bottiglieri; 3) Elia Bottiglieri; 4) Fiore Bottiglieri; 5) Francesco Bottiglieri; 6) Giuseppe Bottiglieri; 7) Pellegrino Bottiglieri; 8) Francesco Cillo fu Gaetano; 9) Luigi de Vito fu Angelo; 10) Nicola de Vito; 11) Giovanni di Pasqua; 12) Francesco Grosso; 13) Giovanni Iannaco; 14) Luigi Iannaco; 15) Michele Iannaco; 16) Nicola Iannaco; 17) Nicola Maria Iannaco; 18) Abele Luongo fu Saverio; 19) don Carminantonio Luongo fu Saverio; 20) don Raffaele Luongo fu Saverio; 21) Domenico Molinaro di Giuseppe; 22) Giuseppantonio Molinaro; 23) Luigi Molinaro fu Andrea; 24) Luigi Nicoloro; 25) Michele Perone; 26) Modestino Perone fu Gabriele; 27) Sabato Perone di Francesco; 28) Michele Pizzano di Carmine; 29) Gregorio Porrazzo fu Felice; 30) Giovanni Schiavo 31) (da San Paolo) Giovanni Carpenito di Saverio
TORRIONESI
1) Serafino Centrella di Lorenzo; 2) Bemardino Dormarumma; 3) Gioacchino Donnarumma fu Antonio; 4) Marzio Donnammma fu Antonio; 5) Pietro Donnarumma fu Antonio; 6) Isidoro Ferrara; 7) Domenico Ferrara; 8) Vito Ibelli; 9) Saverio Iommazzo detto Maro d’Acqua; 10) Savino Iommazzo; 11) Alfonso Lepore di Carmine; 12) Vitantonio Oliviero; 13) Domenico Troisi.
Intervista a Pasquale Buonomo, membro del Comitato di Liberazione Nazionale (sez. di Tufo)
Di Cesare Carpenito
Troppo spesso, e forse con ovvie e giuste ragioni, la storiografia ufficiale si sofferma ampiamente su quelli che furono i fatidici giorni che seguirono all’ “Otto Settembre†al Nord della linea gotica, tralasciando gli effetti di questa straordinaria “rivoluzione†socio-politica nel Sud Italia, avvolgendo in una fitta coltre d’oblìo le tante storie dei nostri piccoli centri meridionali.
Il nostro intento, dunque, è proprio quello di andar a scavare tra le pieghe di una “storia minore†eppur anch’essa alla base della nascita della nostra “Repubblica democratica fondata sul lavoro…â€.
Abbiamo ascoltato, a tal fine, la voce di uno straordinario referente irpino: Pasquale Buonomo, nato il lontano quindici di agosto del 1914 a Tufo e, tra l’altro, rappresentante e firmatario del “Partito Socialista Italiano†nel Comitato di Liberazione Nazionale nato nella “Città del Grecoâ€.
Il signor Buonomo, come mi racconta con grande ricchezza di particolari, partì il nove giugno del 1940. - Il dieci scoppiò la guerra – sottolinea – la notizia ci giunse mentre ci stavano ancora distribuendo le divise.-
Sarebbe cominciata, di lì a poco, un’Odissea che lo avrebbe portato, insieme al battaglione di bersaglieri di cui faceva parte, prima sul fronte francese, poi a Ferrara, a Brindisi, in Albania (prima sul fronte greco e , poi, su quello montenegrino, sul quale “presero†Ragusa) e, al ritorno in Italia, in Calabria, sull’Aspromonte e,infine, sulla Sila.
E’ qui che la storia del bersagliere Buonomo giungerà ad un importante svolta.
Con l’approssimarsi delle festività pasquali, chiesi ai miei superiori una licenza di tre giorni (dal Venerdì Santo a Pasqua) più due necessarii al viaggio.Ottenutala, mi recai alla stazione di Crotone, da dove sarei dovuto partire e, proprio lì, incontrai un altro militare irpino, più precisamente di Petruro, che ben conoscevo, dato che suo padre lavorava presso le Miniere Di Mazro di Tufo.
Avendomi riconosciuto, ed essendo venuto a conoscenza della mia imminente partenza, mi affidò una lettera per suo padre.
Appena giunto a Tufo, ovviamente dopo aver finalmente riabbracciato i miei cari, decisi di portare la lettera al destinatario presso la Miniera di zolfo.
Una volta lì, riconosciuto dal direttore dello stabilimento, il quale si intrattenne a chiacchierare con me, ricevetti una straordinaria proposta: avrei potuto ottenere l’esonero grazie alla sua intercessione.
Non smetterò mai di ringraziare quell’uomo: agli inizi di giugno infatti, grazie al suo intervento, ottenni il tanto sospirato esonero, e tornai a Tufo nel giorno quattro, incontrando, al mio rientro, la processione del “Corpus Dominiâ€.
Decisi di seguirla in segno di devozione, ancor prima di rientrare a casa>>.
LA LIBERAZIONE
Giungiamo finalmente al momento cruciale della nostra piccola grande storia “di provinciaâ€: i giorni della “Liberazioneâ€.
Le truppe alleate entrarono a Tufo il ventinove settembre - attraverso il percorso tracciato dalla linea ferroviaria - , come ci informa il signor Buonomo.
I tedeschi, in ritirata, spararono vari colpi di mortaio, facendo anche una vittima, - una signora della frazione Santa Lucia -, e facendo saltare in aria -’O ponte ‘e fierro†- e altri importanti punti di collegamento.
Noi tufesi, finchè le acque non si calmarono, ci ritirammo nelle campagne della zona, al fine di scampare ai bombardamenti.
Io e la mia famiglia ci nascondemmo a San Paolo (ndr. una delle frazioni di Tufo) e, da quelle alture, era possibile, e al contempo terribile, poter distinguere chiaramente il bagliore delle esplosioni e le lingue di fuoco dei lanciafiamme, usati dagli americani soprattutto per attraversare le gallerie le quali, altrimenti, si sarebbero trasformate in ottimi punti per eventuali imboscate da parte dei tedeschi.
L’avanzata americana si protrasse fino alla località , nei pressi di Altavilla Irpina, chiamata Ciardelli.
A quel punto, tutti ritornammo in paese.
E’ da sottolineare, tra l’altro, che poche o nulle furono le violenze nei confronti della popolazione sia da parte degli americani che dei tedeschi, i quali, al massimo, si limitarono a sottrarre i pochi beni alimentari ancora nascosti in qualche casa: salumi, vino e, addirittura, interi maiali-.
Ritornati in paese, dunque, la vita, seppur “forzatamenteâ€, doveva continuare e, contestualmente, si doveva tornare a lavoro.
L’intera comunità sembrava essersi svegliata di soprassalto da un brutto incubo che, stranamente, aveva però lasciato reali ferite al mattino.
E’ in questo particolare contesto che Pasquale Buonomo parteciperà alla nascita del locale Comitato di Liberazione Nazionale.
-Tornato a lavoro, fui inviato, insieme ad un collega, a “fare la pozzolanaâ€.
Mentre stavamo portando a termine il nostro compito, fummo raggiunti dal signor Iennaco, il quale ci invitò ad una riunione per discutere, appunto, della nascita del Comitato di Liberazione anche a Tufo.
Il mio collega non se la sentì di prender parte a quell’assemblea, ma io, più deciso che mai, mi ci recai comunque.
In quella stanza eravamo in una quindicina di persone: il punto era scegliere i quattro firmatari rappresentanti dei quattro maggiori partiti impegnati nella Liberazione, ovvero il Partito Socialista Italiano, il Partito Comunista Italiano, la Democrazia Cristiana e la Democrazia del Lavoro.
A firmare fummo io per il Partito Socialista (nel quale aveva militato, ovviamente prima dell’avvento del regime, anche mio padre) e, per gli altri partiti Antonio Di Vito, Fiore Nigro e Alberigo Barile.
La sezione del Comitato fu subito inaugurata all’interno di quella che, fino ad allora, era stata la sezione del PFN, in virtù della decisione, presa a livello nazionale, di far passare tutti i locali del partito Fascista alle varie sezioni locali del Comitato di Liberazione.
Il secondo passo da compiere – ci racconta il signor Buonomo – fu quello di trasformare il Sindacato Fascista in Sindacato Democratico e, anche in quell’occasione, fui tra i firmatari, stavolta insieme a Celestino Luciano, Alfonso Di Dio e Angelo Cennerazzo.-
Giunse poi quello che, ovviamente, rappresentò il passaggio puù delicato nella prima fase di democraticizzazione degli enti: l’allestimento di una giunta.
Ci giunse l’ordine di scegliere quattro assessori ed un sindaco.
La scelta degli assessori sarebbe stata interna alle singole sezioni di partito, mentre il nuovo sindaco sarebbe stato scelto da tutto il comitato.
Io fui nominato assessore dal Psi, ottenendo sessantadue voti su settantacinque iscritti; gli altri assessori furono Fiore Nigro, Antonio Di Vito e Michele Ciampi, il quale fu scelto in quanto “rappresentante†della frazione di San Paolo (che allora contava circa trecento-trecento cinquanta abitanti) sebbene non fosse iscritto a nessun partito.
Ora ci aspettava la scelta più difficile: quella del sindaco.
Dopo lunghe riflessioni, però, decidemmo di far ricadere la nostra scelta su quello che, fino ad allora, era stato il podestà di Tufo, ovvero Placito (detto Placentino) Florio, il quale aveva sostituito il primo podestà tufese Bottiglieri.
Ci rendevamo conto che poteva essere una scelta discutibile ma, d’altro canto, si trattava di un uomo degno di tutto il rispetto per ricoprire quella carica e, tra l’altro, mai aveva perpetrato soprusi nei confronti della popolazione.
Dopo poco tempo, comunque, per raggiunti limiti d’età , Placito Florio decise di dimettersi e, dunque, cadde automaticamente anche la nostra giunta, la quale fu subito sostituita da una nuova giunta composta da Michele Buonomo (mio fratello), Giuseppe Grosso, Giuseppe Zuzolo, Giuseppe Di Vito ed Alberigo Barile come sindaco.
Fu questa la giunta che guidò il paese fino alle elezioni del 1946, valide per la Costituente, le quali conferivano un mandato di due anni agli eletti, in vista di quelle che sarebbero state le prime vere e proprie elezioni “generali†dell’Italia libera nel 1948. -
La redazione de “Il Corriere dell’Irpinia†ringrazia vivamente il signor Pasquale Buonomo per la gentile collaborazione e la disponibilità dimostrata nel corso dell’intervista rilasciata al sottoscritto in data 23 gennaio 2009.
Di fondamentale importanza, infatti, è risultata la sua ampia e dettagliata testimonianza storica al fine di riscoprire tasselli della nostra microstoria irpina.
1)Veniva definito “arganista†l’addetto all’argano, strumento che regolava le corse dei carrelli.
2) Prima dell’avvento del telefono in miniera, per le comunicazioni con il sottosuolo si usava un “martellettoâ€, consistente in un filo di ferro filato alla cui estremità , all’imbocco della galleria, era appeso un pezzo di ferro o una ruota di carrello. Quando il filo veniva tirato, il pezzo di ferro batteva contro un altro pezzo di ferro appeso al muro e suonava. Esisteva un codice per le comunicazioni attraverso tale apparecchiatura: un colpo indicava la richiesta “mandare giù il carrelloâ€; due colpi “tirarlo suâ€; tre colpi “fermarloâ€.
3) Sulla causa scatenante dell’incendio, come si spiega successivamente nel testo, esistono tutt’oggi due tesi.
4) Esiste un’altra versione nella ricostruzione di questo momento: Giuseppe Campanile sarebbe uscito per primo dalla galleria attaccato ad un carrello, Antonio Zuzolo e Giovanni Guerriero, invece, sarebbero tornati in superficie in un secondo momento, anch’essi aiutandosi con un carrello.
5) Venivano definiti “doppioni†i minatori membri dello stesso nucleo familiare. In linea di massima l’azienda licenziò i figli lasciando al proprio posto i padri.