TUFO


  • TYPE
    LIVE AREA
  • WEBSITE
    http://www.comune.tufo.av.it/hh/index.php
  • ADDRESS
    Comune di Tufo - Tufo - 83010 - Avellino - CAMPANIA
  • INFO
    Storia del comune
    STEMMA DELLA FAMIGLIA
    DEL TUFO ANCORA PRESENTE SUL CASTELLO


    GLI INIZI

    Anno del Signore 888. Il principe beneventano longobardo, Aione II, decide di costruire una torre a difesa del castello di Tufo. Aione II, considerando Tufo utile come baluardo per la difesa della capitale del principato longobardo, lo aggrega alla circoscrizione di Benevento.
    Abbiamo, in questo modo, una duplice notizia: la nascita di quel che, nel 1821, diventerà comune di Torrioni, l’altro comune storicamente legato al Greco di Tufo (turris Ayonis = torre di Aione), e quella della preesistenza di Tufo a quella data.
    Da quanto esisteva? Fondato da chi?
    Sappiamo che l’uomo è presente da molte migliaia d’anni in Irpinia, ce lo dice l’archeologia, ma da quanto tempo Tufo è abitato?
    Nelle passeggiate verso San Paolo che compivo da ragazzino, all’uscita sulla provinciale della strada vicinale Bussi, in un taglio della stessa provinciale d’una costa, era visibile uno strano buco nella terra.
    “Una tomba romana, trovata anni fa”, era la risposta degli adulti alla mia curiosità infantile. Si narra, ed è una memoria abbastanza sicura, che, quando fu costruito il ponte in cemento armato che collega con il bosco di Prata di Principato Ultra (altro paese della DOCG) , fu rinvenuto un cunicolo d’acquedotto sannita-romano. Un temerario vi entrò e riportò fuori un iscrizione epigrafica che purtroppo sparì misteriosamente quasi subito. Il Fiume Sabato,che quel ponte attraversa, prende il nome dai Sanniti che tra loro si chiamavano Safinim.
    Sembra, però, che dovremo aspettare ancora affinchè il caso ci dia più luce prima di quel fatidico anno 888 dalla redenzione del mondo.
    Quell'anno, il nemico erano i bizantini contro cui il principato longobardo lottava ora in difesa ora in attacco. La lotta ormai durava da anni e durerà ancora fino all’arrivo dei normanni che, trovando sfiancati gli uni e gli altri, imposero a tutto il mezzogiorno il loro dominio, ricacciando l’impero di Bisanzio (Costantinopoli) nella penisola balcanica.
    Tufo era dunque un passaggio nella valle del Sabato, era ed è a metà strada tra Avellino e Benevento, un castello, un fortilizio strategicamente importante a difesa dell’una o dell’altra città, secondo i padroni del momento.
    Le testimonianze più evidenti del passato longobardo sono due: la grotta di San Michele, di cinquanta cubiti di lunghezza, con annesso "romitorio di monaci" (dicono i documenti e le pietre) risalente a quel periodo, e la devozione del paese a San Michele ancor oggi. Chi si trovasse a Tufo l’8 maggio ci resti fino a sera, vedrà una rappresentazione popolare sulla cacciata degli angeli ribelli da parte dell’arcangelo. Tutti conoscono tutte le parole della recita e ogni passaggio è applaudito bene o male interpretato non importa, e se gli attori dimenticano le parole (ma non succede), la folla è pronta a recitarle. Abbiamo lasciato Tufo come un baluardo militare sulla strada romana Antiqua Major e li lo ritroviamo con l’arrivo dei Normanni.
    I normanni, ovvero gli uomini del nord, sono i vichinghi che s’erano insediati nel nord della Francia, dopo secoli di scorrerie, alla confluenza della Loira con l’Atlantico.
    Non mancavano di spirito guerresco e d’avventura, da buoni vichinghi, sia pure resi più integrati al mondo europeo meridionale dal vivere nel feudo francese a loro concesso da un re di Francia, Carlo il Grosso, stremato dai loro continui attacchi. Il duca di Normandia conquista l’Inghilterra e sconfigge nel 1066 ad Hasting il re sassone. Da quel momento nasce l’Inghilterra.
    Quasi negli stessi anni, altri normanni conquistano in poco tempo quello che sarà per novecento anni circa il Regno delle due Sicilie.
    Sappiamo che Tufo dal secolo XI è in mani normanne. Si narra che la famiglia nobile che prende il nome dal paese (de Tufo, de lo Tufo, del Tufo) deriverebbe da Ercole Monoboi un compagno d’arme di Roberto d’Hauteville, detto Roberto il Guiscardo. Ma il primo nome di feudatario di Tufo che incontriamo è quello di Raone del Tufo, lui ha il feudo negli anni in cui il fratello di Roberto d’Altavilla, Tancredi sbaraglia bizantini e Arabi prima in Calabria e poi in Sicilia. All’epoca nessuno lo sa, ma sta nascendo uno stato europeo e questa nascita coinvolgerà figure di spicco dell’intera Europa, addirittura con uno scisma e lo scomodamento, tra imperatori, re papi e antipapi, d’un pezzo da novanta come San Bernardo di Chiaravalle.
    Abbiamo lasciato Tufo a difesa di Benevento e qui lo ritroviamo nell’anno 1119, saldamente in mano a Raone del Tufo.
    La politica d’espansione normanna alla fine si scontrò con gli interessi di Gregorio VII, quel papa che aveva costretto all’umiliazione di Canossa l’imperatore del Sacro Romano Impero.
    Alla fine però il Papa riuscì a conservare solo la città di Benevento e poco più, mentre Roberto il Guiscardo ottenne l’annessione del resto del ducato beneventano.
    Ma, di lì a poco, tra i capi normanni alla morte sia di Roberto che di suo fratello Tancredi, scoppia la guerra per la supremazia e da questa lotta nasce il Regno. Tufo ne è coinvolto.
    Tufo, coi longobardi, era nella sfera d’influenza di Benevento. Diventata questa città papale,ed essendo Avellino ancora città longobarda fino al 1112, Tufo e i suoi feudatari normanni giuravano fedeltà al conte normanno di Ariano. Raone del Tufo quindi è nella lotta al fianco del suo duca contro il duca Guglielmo II il quale è sostenuto dal conte di Alife e anche dal connestabile di Montefusco (amche questo comune della DOCG), Landolfo de la Greca. Il Conte di Alife subito si mosse ad assediare Tufo. Ma fu respinto da una difesa saldissima.
    Poco dopo attacca il castello anche il connestabile di Montefusco, forte dell’espugnazione dei castelli di Montemiletto e Montaperto. Ma le macchine d’assedio e gli sforzi di vincere la resistenza furono inutili. Talmente inutili che il Connestabile passò ad atti di terrore, quali la devastazione dei campi e la distruzione delle vigne.
    Notiamo questo particolare che le cronache di allora annotano a margine degli eventi: Tufo aveva vigne, tante, se la loro distruzione è degna di nota. È la prima notizia della vocazione attuale del nostro territorio.
    Altre battaglie si svolgono fino all’avvento di Ruggiero II il primo re del mezzoggiorno, almeno un altro assedio stringe il paese, Tufo rimane glorisamente inespugnato.
    Durante tutti questi sovvolgimenti San Guglielmo da Vercelli, longobardo del nord Italia, fonda la sua congregazione religiosa a Montevergine. Nel 1139, ancor vivo San Guglielmo, un tufese, tale Costantino figlio di Ruggiero, dona al Santuario una casetta e un campo. Indovinate di che? Ma di viti, ovviamente.
    Che tipo di viti? Il famoso Gerco di Tufo? O più probabilmente l’onnipresente aglianico. O forse il fiano di Avellino della limitrofa reale della omonima DOCG. Non lo sappiamo. Sappiamo che la famiglia di Marzo vanta il trapianto del vitigno del greco a cura di Scipione Di Marzo che, in fuga dalla peste del 1648, scampa in Tufo da San Paolo Belsito, sulle pendici del Vesuvio.





    ORIGINE DEI DEL TUFO SECONDO UN DEL TUFO

    Pagine dalla 1 alla 4 di “HISTORIA DELLA ILLUSTRISSIMA FAMIGLIA DEL TUFO” del Giovan Battista Testa del Tufo, 1627, NAPOLI- dedicata al Signor Scipione del Tufo Barone della Terra di Tufo e Torrione.
    Per diligenza, e fatica, che da Noi s'è fatta in leggere i libri degli Archivi Reali, in rivolgere gli Autori dell'antiche Historie, non habbiamo potuto ritrovare, né haver certezza della vera origine di questa nobilissima Famiglia del Tufo in questo Regno di Napoli. Né di ciò maravigliar ci dobbiamo per ritrovarsi antichissima in Regno, che passa lo spazio di seicento anni, ò pure, come altri affermano di ottocento.Vogliono dunque gli Autori delle Antiche Historie, che ritrovandosi il Regno di Napoli da diverse nazioni de'Barbari oppresso, e conculcato, soprangiungendovi la nation Normanda, e impadronendosene, ne cacciò tutte le altre. Affirmano, che il primo che, di questa natione vi venisse fosse Guglielmo chiamato per sopranome Ferrabac figlio di Tancredi Conte d'Altavilla, che fu figlio di Guglielmo Secondo, Qunto Duca di Normandia, descendente di Rollone, il quale avendo l'anno 1008, occupata la Puglia, se ne intitulò Conte.L'opinione d'alcuni è, che con il detto Guglielmo vi passasse un Signore suo parente chiamato Hercole Monoboij valorosissimo Cavaliere e General Capitano dell'essercito, e che per la vittoria ottenuta contro Sanniti ne avesse rapportato in dono da Goglielmo la Terra del Tufo sita nella Provincia di Principato con altri feudi, e poderi, per lo qual dominio, e signoria del Tufo, come si scorge esser' anche avvenuto a molte altre delle più illustri, e nobilissime Famiglie di questo Regno, le quali presero il cognome, o ver casato, dalle Città, e Terre, che possedèrono, come l'Aquila, l'Avella, la Celana, la Diana, la Gambatesa, la Marzana, la Molise, la Sanseverina, e altre. Di maniera, che gli descendenti da Hercole non più Monoboij, ma Tufo furono cognominati. Questa opinione da tempo in tempo fino ai nostri giorni nostri s'è concimata, autorizzandoli anco con le identità dell'insegne, over armi. Poiché ritrovasi fino a questi nostri tempi questa famiglia di Monoboij in Francia, como anco la casa, over Famiglia, de Levis descendente dalla medesima casa de'Monoboij, e ambe d'un medesimo ceppo, della quale ne fù Filippo de Levis Arcivescovo d'Arli, e dal Sommo Pontefice Sisto Quarto l'anno 1483 creato Cardinale del titolo di San Pietro, e Marcellino, li quali Monoboij, e Levis in Francia usarono, e al presente usano per antica loro insegna tre bordature d'oro in campo nero, con un rastrello rosso a tre denti sopra la punta della bordatura superiore, la quale insegna continuatamente usarono gli discendenti di Hercole Monoboij in questo Regno, e l'istesso Hercole prima, e dopo, che s'ebbe mutato il suo cognome, over casato de Monoboij in Tufo, fino al tempo del Re Carlo Primo, dal quale havendo gli Tufi da quel magnanimo Re havuto per concessione tre gigli d'oro, e il rastrello a quattro denti, non solito concedersi se non solo a Cavalieri di gran qualità, e merito, lo giunsero sopra le due bordature, nel desimo campo nero, il quale continuarono sino alla venuta del Re Alfonso Primo d'Aragona detto il Magnanimo; sotto il dominio del quale, gli Tufi levarono dalle loro armi, ò ver insegne gli tre gigli, usando solo le due bordature d'oro, con il rastrello rosso a tre denti sopra la punta della prima bordatura superiore, come nella sepoltura di Fredina, ò pur Sinfredina del Tufo Contessa di Ieraci, in quella Città in Napoli in San Ligorio, nel sepolcro del Marchese di Genzano, in santa Restituta nel sepolcro di Gio. Vincenzo del Tufo, in sant'Agnello in quello di Don Flaminio Orfino Conte di Muro in mezzo alla detta Chiesa, in san Severino nella Cappella de' Conti della Saponara, in san Domenico nella Cappella de gli Rota, e in diversi altri luoghi.




    IL FEUDO PASSA AI PIATTI

    Sul sito della famiglia Piatti, feudatari di Tufo nel sec.18°, interessanti notizie su Tufo e Torrioni e sulle famiglie dei due paesi
    Visita il sito web









    1861
    MALEDETTO LO SISSANTA


    Invitato come sindaco a Gaeta per il 150.mo dell’assedio sanguinoso che sancì la scomparsa del regno delle Due Sicilie, scopro che Tufo è stata invitata per essere stato uno dei luoghi di rivolta antisabauda. Una confusa notizia in merito, in realtà, l’avevo avuta, per la prima volta e assai confusamente, da Ermete De Renzi, che mi diceva di coinvolgimenti di suoi parenti, minacciati di fucilazione dalla Guardia Nazionale di Altavilla, a causa di una bandiera borbonica inalberata sulla torre di destra della Chiesa Madre.

    Mi sono allora incuriosito e ho trovato qualche notizia in: LA RIVOLTA DI MONTFALCIONE, di Edoardo Spagnuolo, ed. Nazione Napoletana, 1997, Napoli.

    I fatti tragici di Montefalcione, con fucilazioni sommarie e crudeltà sono noti, meno noto è che la rivolta si estese fino a Tufo e molti altri paesi, in un incendio breve e folgorante; a reprimerla furono soprattutto le truppe “ dei fratelli italiani” dei mercenari ungheresi al comando del Governatore di Avellino De Luca, uomo alquanto spietato.
    "Evviva Francesco II! Si fotta V1ttorio Emanuele e Garibaldi! Abbasso i galantuomini! Viva il popolo basso!".
    I napoletani, intesi come abitanti delle Due Sicilie, amarono molto la figura di Francesco II e di Maria Sofia di Borbone, sovrani sfortunati e per questo assimilati a popolani. Il loro comporftamento eroico tra i soldati di Gaeta spiega il fosso cui fa riferimento la filastrocca di seguito: è il fosso della trincea di Gaeta.


    “Garibaldi è troppo gruosso
    E nun po’ zumbà stu fuosso
    Francìschiello è piccirillo
    e zompa comma nu cardìllo!”

    Erano quelle innanzi le grida e le ingenue canzoni in auge tra i popolani di Tufo, Torrioni e Petruro Irpino, per qualche giorno dal 7 luglio 1861.



    DON CICCILLO E LA RIVOLTA DI TUFO

    Nel circondario di Tufo, nei mesi precedenti, erano stati incriminati e arrestati numerosi paesani per "voci sediziose", erano: Pasquale e Carmela de Vito, Andrea, Michele e Clementina de Pasqua, Andrea de Pasqua di Carmine, Angela Olivieri, Michele Luongo, Modestino nigro e altri (Avellino, Archivio di Stato, Sentenze della Gran Corte Criminale b.206, Marzo 1861)

    Un gruppo di venti o venticinque soldati sbandati decise allora di riparare in montagna per costituire un accampamento militare. Tra questi vi erano: Francesco Cillo, Michele Pizzano, Sabato e Modestino Pirone, Domenico e Luigi Molinaro e Pellegrino Meoli; Pasquale Pisano di Altavilla fu uno dei principali animatori della rivolta (Avellino, Archivio di Stato, Sentenze della Gran Corte Criminale b.206, Marzo 1861).

    Il 7 luglio, probabilmente in accordo con Montefalcione, si passò all’azione e tutta la colonna penetrò verso mezzanotte in paese, determinando la sollevazione degli abitanti. Gli ex militari erano capitanati da Francesco Iannaco di statura bassa e con un folto mustacchio, Iannaco godeva di gran rispetto ed era chiamato dai compagni ora "maggiore" ora, più semplicemente, "don Ciccillo". Don Ciccillo era nato a Mercogliano l’8/11/1833 da Domenico e donna Carmina di Gennaro, poco prima del 1861 Iannaco si era sposato a Tufo, dove era venuto a risiedere.

    Al grido di "Viva Francesco II! Viva Maria Sofia! Abbasso l’Italia! Abbasso Vittorio Emanuele!", una folla di insorti attaccò il posto di guardia di Tufo, prendendo tredici fucili, infrangendo i quadri di Vittorio Emanuele e Garibaldi e abbattendo lo stemma sabaudo sovrapposto all’ingresso. Bruciò la bandiera tricolore in presenza del capitano della Nazionale, Michele Barile, sostituendola con il vessillo borbonico. Occupò quindi la casa municipale, distruggendo le insegne sabaude ivi presenti. Fu infine sbriciolata l’insegna sabauda che era sul botteghino di sali e tabacchi di Luigi Luongo. Vicino al posto di guardia era la casa dell’ex sindaco Antonio Luongo. Centinaia di popolani si radunarono sotto il suo balcone chiedendogli le armi che custodiva, gridando che erano proprietà di Francesco II. Il sindaco, senza pensarci due volte, diede loro cinque fucili. Assaltarono poi la casa di Abele Luongo, luogotenente della Guardia Nazionale, consigliere comunale e assessore. Gli presero un fucile e una pistola. Luongo insieme col cancelliere comunale Angelo de Vizia andò a lamentarsi dal capitano sollecitandolo a fare un rapporto dell’accaduto, ma si sentì rispondere: "Se vuoi tu una palla in petto sta bene, ma io non la voglio" (Avellino, Archivio di Stato, Corte d’Assise, b.1, ff.11, 12). Abele Luongo fu poi accusato dal sindaco di aver fomentato la rivolta. In realtà si trattò di una ritorsione dovuta alla rivalità esistente tra i due, in quanto entrambi concorrenti a cariche comunali.

    Gli insorti tolsero le armi a vari altri individui, tra cui un tal Giuseppe Troisi. Piazzarono infine la bandiera su una croce che era dinanzi alla chiesa. La mattina del giorno 8, non appena aprì la chiesa per suonare il mattutino, il sagrestano Francesco Grosso fu circondato da molte persone. Non è chiaro se fu proprio lui o un tal Sabino Olivieri a salire sul campanile per inalberare il vessillo borbonico. Nel frattempo, mentre gruppi di popolani presidiavano le vie tra grida di giubilo, una ventina di soldati sbandati percorreva in lungo e in largo le campagne circostanti per arruolare altri volontari. Trovarono un tal Alfonso Lepore, soldato borbonico sbandato di Torrioni, che accettò di seguirli.

    A sera l’ex sindaco e i suoi familiari furono costretti da don Ciccillo, armato di pistola, a baciare i ritratti dei Borbone che nel frattempo erano stati collocati davanti al posto di guardia per essere poi sistemati all’interno, su un altarino.

    All’una di notte del giorno 8, un centinaio di persone mossero da Tufo, occupando verso le due Torrioni (Avellino, Archivio di Stato, Corte d’Assise, b.1, ff.11, 12), dove si unirono ad altri del luogo. Tra questi citiamo: Pellegrino Meoli, Giovanni Carpenito e i soldati sbandati Felice Altieri, detto Bronzino, e Alfonso Lepore (Avellino, Archivio di Stato, Corte d’Assise, b.1, ff.11, 12). Si rinnovarono le scene accadute il giorno prima a Tufo: al grido di "Viva Francesco Il e Maria Sofia! Abbasso l’Italia e Vittorio Emanuele!", i popolani assaltarono la cancelleria comunale, distruggendo ovunque le insegne sabaude. Nel posto di guardia presero dieci fucili, per i quali, don Ciccillo, con grande lealtà, rilasciò una ricevuta firmata.

    Una trentina di individui accerchiarono il sottotenente Roberto Spadera chiedendogli le armi e obbligandolo a precederli nella casa del capitano don Donato Leo, dove presero dieci fucili e altrettanti pacchi di cartucce. Per ottenere quanto richiesto don Ciccillo dovette anche questa volta firmare una ricevuta che fu successivamente consegnata alle guardie nazionali sopraggiunte da fuori. Una guardia lacerò il foglietto, ma un frammento fu raccolto da don Filippo, zio di don Donato che successivamente lo consegnò al potere giudiziario; in esso si leggono le ultime righe “delle Nazione del Comune di Torrioli Lì 8 luglio 1861 - Il Capo della Colonna. Francesco lannaco 1° sergente”. Questo frammento è conservato negli incartamenti processuali appena citati.


    Serafino Centrella, guardia nazionale, che si trovava in quel momento a passare davanti all’abitazione di Don Donato, fu obbligato dalla folla a recarsi nella sua masseria per prendere il fucile e consegnarlo. I paesani, preceduti dal sottotenente e dal capitano, si diressero poi a casa del sindaco Pellegrino Donnarumma, che, sentendo le voci dei due militari, si convinse ad aprire il portone. Per costringerlo a consegnare le armi (un fucile con la baionetta, uno "alla paesana montato a fulminante" e quaranta cartucce), don Ciccillo lo colpì con uno schiaffo e un altro gli puntò la baionetta alla gola.

    Non fu risparmiata l’abitazione del cancelliere Carmine Centrella, dove, non avendo trovato i quadri sabaudi, requisirono un fucile, ritirandosi al grido di "Viva Dio! Viva Francesco II! Viva Maria Sofia!". In nome di Francesco II, chiesero le armi anche al supplente giudiziario Andrea Centrella, che era a letto convalescente, ottenendone però soltanto del vino. E se ne andarono persino ringraziando, dicono i documenti processuali

    Il caporale Michele Cennerazzo fu costretto consegnare la bandiera tricolore, che subito si provvide a bruciare dinanzi alla chiesa, mentre sul campanile veniva esposta una bandiera borbonica. Verso le 3 fu la volta del cassiere comunale Mariano Ferrara e di Michele Consolazio, che furono entrambi disarmati. A notte fonda la guardia Serafino Centrella, il sottotenente "tutto tremante" e il capitano furono costretti a seguire i rivoltosi in Petruro. Don Donato riuscì a defilarsi con la scusa che doveva accudire il decrepito zio arciprete don Filippo e due ragazzi di tenera età che aveva lasciato piangenti.

    Don Ciccillo guidò la sua allegra brigata in direzione di Petruro, dove giunse verso le 4 e 45 di notte. Qui, unitisi con alcuni del luogo (Marzio, Pietro e Gioacchino Donnarumma, Serafino Centrella e Francesco Covino), i rivoltosi si recarono a casa del capitano Michele Zarrella, dove, presentandosi come soldati sbandati che giravano per Francesco II, si fecero consegnare venti fucili da caccia. Don Ciccillo, da capobanda galantuomo, rilasciò la solita ricevuta (Ndr: la galanteria di don Ciccillo non si comprende se non si pensa che con quelle ricevute scagionava gli avversari dalla possibile accusa di aver favorito gli insorti e quindi far loro pagare amare conseguenze ai sabaudi). La ricevuta di don Ciccillo fu successivamente consegnata dal capitano al comandante della colonna mobile di Ceppaloni, don Francesco Parente, accorso per ristabilire l’ordine.

    Zarrella fu obbligato a scendere in piazza, erano altri cinquanta armati, e costretto ad aprire il posto di guardia (chiuso perché tutti i militari erano nelle Puglie). Entrati con un lume per rischiarare 1’intemo, i nuovi arrivati presero la bandiera tricolore, e, staccati dalle pareti i quadri sabaudi, li ridussero in frantumi, facendone poi un grande falò in pubblica piazza. Inalberarono quindi il vessillo borbonico nelle vicinanze e sul muro della fontana pubblica, tra grida di "Viva Francesco e Maria Sofia!". Inutilmente cercarono armi anche in casa del cancelliere Giuseppe Capozzi.

    Il medico e sindaco don Angelo Troisi aveva inviato ottocento ducati a Garibaldi, suscitando il risentimento della gente. Fu per questo che alcuni gridarono che a loro ne doveva donare almeno quattrocento, altrimenti lo avrebbero ucciso e gli avrebbero messo a fuoco la casa. Dinanzi a questi propositi il capitano, che non voleva essere coinvolto in azioni che recassero danni al sindaco, ottenne assicurazione da don Ciccillo che non sarebbe stata commessa alcuna violenza. Nel frattempo era accorso anche il cancelliere comunale.

    Il sindaco, secondo la deposizione resa dallo stesso don Angelo Troisi, "stando a dormire nella propria casa, venne destato dal forte picchiare del portone, con minaccia d’incendio ed altro qualora non si fosse aperto. Stiede titubante in prima, ma poi avendo conosciuto la voce del Capitano e del Cancelliere Comunale, si affaccio al balcone, e vide che i medesimi erano accerchiati da una quantità di persone armate, portandosi da una di esse anche un fanale. Dietro le assicurazioni fatte da detti Capitano e Cancelliere di poter aprire senza timore, discese nel cortile ed aprì il portone. In un subito ed a guisa di sorpresa, dietro questi ultimi entrarono pure 5 in 6 individui armati tutti, i quali si annunziarono soldati borbonici (Avellino, Archivio di Stato, Corte d’Assise, b.1, ff.11, 12). Il Troisi fu costretto a cedere uno dei due fucili che possedeva, sette/otto e mezzo rotoli (450 grammi) di polvere. Incredibilmente i simpatici paesani gli concessero di tenersi l’altra arma per consentirgli di non restare senza difesa.

    Ovviamente tal liberalissimo Sindaco collaborò in seguito con grande zelo ad accusare i poveri popolani.

    Alle prime luci dell’alba i nostri scanzonati "eroi" si decisero a ripartire, non prima, però, di aver fatto colazione. Don Ciccillo chiese infatti al capitano Zarrella di procurare centocinquanta colazioni per la sua truppa. Poiché fu subito chiaro che non era possibile soddisfare la richiesta, ci si rivolse al panettiere Carmine Iannaco, che vendette agli insorti cinque rotoli (poco più di quattro chili e mezzo) di pane, prontamente pagati. Furono anche acquistate presso Vincenzo Giovanniello, per sei carlini, 12 -13 caraffe di vino, ovvero 8,7-9,4 litri (Avellino, Archivio di Stato, Corte d’Assise, b.1, ff.11, 12). Quindi, si legge nelle stesse carte del processo, issarono la bandiera dei Borbone sulla chiesa, "Sul qual punto riuscì loro facile ascendere per mezzo delle scale che in quel locale stesso esistevano, poiché era la Chiesa in Fabbrica". Imposero dunque a Zarrella di vigilare affinché non fosse tolta, altrimenti sarebbero tornati e avrebbero compiuto grossi darmi. Tra le 15 e le 16 il forte vento fece cadere la bandiera, ma subito, come promesso, giunsero in paese Alfonso Lepore e un altro uomo, armati di fucili e di pistole, a rimetterla a posto. Anche a Torrioni il vento fece cadere la bandiera dal campanile della chiesa. La raccolse lo stesso Alfonso Lepore, che la inalberò sul tetto dell’abitazione del citato Consolazio "come punto più di veduta della campagna"

    Secondo la voce pubblica verso sera alcuni abitanti di Petruro erano partiti dal paese per unirsi agli sbandati. Contemporaneamente numerose guardie di Torrioni, guidate dal capitano don Donato Leo, si erano mosse per ispezionare le masserie poste in direzione di Tufo con l’intenzione di scovare i fuoriusciti e procedere all’arresto di eventuali conniventi. Il caso volle, però, che le parti si invertissero. Poco lontano dall’abitato, infatti, le forze dell’ordine vennero intercettate da una colonna di sbandati, disarmate e condotte a Tufo. Qui, nel frattempo, si festeggiava con luminarie ed altro, tra continue e fragorose grida di evviva, il ritorno del governo patrio.

    Gli incauti militari di Torrioni, dopo essere stati costretti ad accendere le candele dinanzi ai quadri di Francesco e Maria Sofia, furono rispediti a casa: il solito buon cuore dei paesani!

    Il giorno 11 il circondario di Tufo (dove la sera del 10 ancora si festeggiava per Francesco II) fu investito dall’accorrere di guardie nazionali da Altavilla. Ceppaloni e San Giorgio, che posero fine alla rivolta.

    fucilazione di Vincenzo Petruzziello a Montefalcione, 1861



    I seguenti incriminati per i fatti di Tufo furono per lo più incarcerati.


    TUFESI
    1) Angelo Bottiglieri; 2) Antonio Bottiglieri; 3) Elia Bottiglieri; 4) Fiore Bottiglieri; 5) Francesco Bottiglieri; 6) Giuseppe Bottiglieri; 7) Pellegrino Bottiglieri; 8) Francesco Cillo fu Gaetano; 9) Luigi de Vito fu Angelo; 10) Nicola de Vito; 11) Giovanni di Pasqua; 12) Francesco Grosso; 13) Giovanni Iannaco; 14) Luigi Iannaco; 15) Michele Iannaco; 16) Nicola Iannaco; 17) Nicola Maria Iannaco; 18) Abele Luongo fu Saverio; 19) don Carminantonio Luongo fu Saverio; 20) don Raffaele Luongo fu Saverio; 21) Domenico Molinaro di Giuseppe; 22) Giuseppantonio Molinaro; 23) Luigi Molinaro fu Andrea; 24) Luigi Nicoloro; 25) Michele Perone; 26) Modestino Perone fu Gabriele; 27) Sabato Perone di Francesco; 28) Michele Pizzano di Carmine; 29) Gregorio Porrazzo fu Felice; 30) Giovanni Schiavo 31) (da San Paolo) Giovanni Carpenito di Saverio


    TORRIONESI
    1) Serafino Centrella di Lorenzo; 2) Bemardino Dormarumma; 3) Gioacchino Donnarumma fu Antonio; 4) Marzio Donnammma fu Antonio; 5) Pietro Donnarumma fu Antonio; 6) Isidoro Ferrara; 7) Domenico Ferrara; 8) Vito Ibelli; 9) Saverio Iommazzo detto Maro d’Acqua; 10) Savino Iommazzo; 11) Alfonso Lepore di Carmine; 12) Vitantonio Oliviero; 13) Domenico Troisi.

    PETRURESI
    1) Ferdinando d’Amato; 2) Michelangelo Giovanniello; 3) Pasquale Giovanniello.


    DI ALTRI LUOGHI

    San Giorgio la Montagna: Felice Lardieri fu Giuseppe.

    Montefusco: don Roberto Spadera.

    Altavilla Irpina: Francesco Covino di Pasquale; Pasquale Pisano di Pellegrino.

    Montefredane: Pellegrino Meoli di Carmine. »

    Mercogliano: Francesco Iannaco di Domenico.

    Barletta: Antonio Cirelli di Pasquale.

    Questo è quanto si legge nel libro di Edoardo Spagnuolo, LA RIVOLTA DI MONTFALCIONE, riadattato qui per comodità di esposizione ma riportato quasi pedissequamente. Perché questo fatto storico non c’è nella nostra memoria collettiva? Perché è stato destinato alla vergogna dell’oblio?
    E che vergogna c’è a difendere la patria di sette secoli?


    E, soprattutto, che fine ha fatto il mitico don Ciccillo Iannaco?
    Sicuramente, invece, i nostri avi hanno cantato l’amara filastrocca:


    “Maledetto lo sìssanta
    c’ha lassata ‘sta sementa
    se ‘ncrementa com’a menta
    pe' da' martirio a la povera genta”






    1863
    DAL CORRIERE DELL'IRPINIA 08/02/2011


    Non perdeva occasione per sbeffeggiarli Luigi Luongo (figlio di Felice), come se volesse vendicarsi degli anni trascorsi in carcere. Per Michele e Luigi Luongo (figli di Pietro) il nipote si era trasformato in una vera e propria ossessione. Non soltanto aveva ucciso il loro fratello Geremia, a causa di una rivalità legata al mestiere di fabbro, scontando 19 anni di carcere ma, non rispettando il decreto che gli imponeva, una volta uscito, di tenersi lontano dal domicilio dei familiari della vittima, aveva preso una camera a Grottolella, a sole cinque miglia da Tufo dove vivevano Michele e Luigi, insieme all’altro fratello Pasquale e alla loro madre Barbara Masiello. Un gesto che era apparso loro un terribile affronto, senza considerare che Luigi non perdeva occasione per farsi vedere a Tufo, provocando continuamente i due fratelli. Michele e Luigi lo avevano denunciato alle autorità locali ma non era servito a molto. Non contento, il Luongo (figlio di Felice) aveva imposto a Michele e Luigi di lasciare la casa che avevano in fitto, manifestando la volontà di ritornare presto a Tufo. Pasquale Luongo, il terzo fratello, aveva riferito, infine, come tra il luglio e l’agosto 1861, si fosse imbattuto in Luigi Luongo (figlio di Felice) che gli aveva puntato contro un fucile. E se non fosse stato per Fortunato Marino, intervenuto per fermare il Luongo, Luigi lo avrebbe certamente ucciso. Era stato allora che Pasquale aveva capito, quell’uomo non cercava altro che una vendetta di sangue. Ma la tragedia doveva ancora accadere. La mattina del 3 settembre 1863 Luigi Luongo si era recato ancora una volta a Tufo per la festa di Sant’Antonio. Michele Luongo, nel vederlo, si era affrettato ad avvertire i Carabinieri perché lo arrestassero. Era accaduto tutto nel giro di pochi minuti. I Carabinieri avevano raggiunto la casa di Abele Luongo, mentre Luigi (figlio di Felice) se ne stava affacciato al balcone, gli avevano intimato di scendere e l’uomo non aveva battuto ciglio, sarebbe sceso se era questo che chiedevano. Ma, mentre i Carabinieri lo attendevano davanti al portone principale, era scappato da un’uscita secondaria. A sorprenderlo mentre fuggiva lungo la strada Barbara Masiello, madre di Luigi e Michele (figli di Pietro), aveva chiamato a gran voce i figli che erano accorsi immediatamente. Luigi aveva inutilmente chiesto aiuto al drappello della Guardia Nazionale che accompagnava la banda all’uscita dalla chiesa ma non l’avevano ascoltato. Ne era nato un inseguimento, Luigi e Michele non avevano esitato a sparare pur di fermare il nipote e non contenti di averlo colpito, lo avevano finito con un coltello. Luigi era caduto al suolo, senza vita. Sul suo corpo sei ferite, di queste una sola causata da un proiettile alla parte posteriore del torace, le altre, tutte da arma da taglio, in diverse parti del torace, la morte era stata immediata. E se per Luigi e Michele Luongo (figli di Pietro) l’accusa era quella di omicidio volontario, a finire tra i sospettati anche la madre Barbara Masiello, accusata di complicità e istigazione al delitto. Tra i testimoni c’era persino chi ricordava di averle sentito dire nel chiamare i figli «O vì là, o vì là, correte, uccidetelo». Altri, invece, avevano riferito come la donna si fosse rivolta, disperata, ai carabinieri, mentre i figli si erano già gettati all’inseguimento del Luongo «Correte Carabinieri che mò si uccidono». Anche Angelo De Vito aveva raccontato come proprio la Masiello gli avesse chiesto di chiamare i Carabinieri, preoccupata per il destino dei figli. La Corte stabiliva il non luogo a procedere contro Barbara Masiello, per insufficienti indizi di reità. Schiaccianti, invece, le accuse contro Luigi e Michele (figli di Pietro), qualche testimone ricordava come Luigi, dopo aver ucciso il rivale, fosse addirittura passato dinanzi al caffè dove era seduto il sindaco Giuseppe Di Marzo con la pistola in pugno e gli avesse intimato: «Sto guaio che ho fatto mo me lo pagate». Per lui, oltre all’accusa di omicidio, anche quella di minaccia a mano armata a pubblico ufficiale. In tanti ricordavano però le frasi di scherno che la vittima aveva più volte rivolto ai fratelli Luigi e Michele (figli di Pietro) «La mia bottega sta chiusa, dovrà essere chiusa anche la loro», le offese e gli insulti nei confronti della famiglia, anche nel giorno del matrimonio di Luigi. Così avevano raccontato Giovanni Sabbatino e Giovanni Bergamasco :«Nel recarsi a Tufo, Luigi ha percorso un tratto di strada con noi e non ha risparmiato minacce alla famiglia di Luigi e Michele, figli di Pietro». Angelo De Vizia ricordava come la mattina del delitto la vittima gli avesse manifestato la volontà di tornare al più presto a Tufo e di offrire la propria opera per la manutenzione dell’orologio pubblico per la metà del compenso che riceveva Pasquale. Luigi aveva raccontato agli inquirenti come il nipote lo avesse minacciato per l’ennesima volta e come avesse sparato semplicemente per costringerlo a fermarsi. Poi, sapendolo forte e sanguinario, temendo la sua vendetta, gli aveva vibrato colpi col coltello. Quanto alle parole pronunciate all’indirizzo del sindaco, si era soltanto lamentato con lui, perché lo riteneva colpevole di non aver fatto arrestare Luigi Luongo. Anche Michele aveva ripetuto come si fossero addirittura recati a Montefusco per chiamare i Carabinieri «Volevamo evitare quello che poi è accaduto. Uscito di casa, saputo che mio fratello era venuto alle mani col nipote, mi sono precipitato in suo soccorso, è vero che ero armato ma il colpo è partito contro la mia volontà». Anche Pasquale, il terzo fratello, aveva raccontato di trovarsi con la madre quando era scoppiata la rissa, anche lui si era poi precipitato in soccorso del fratello, armato di fucile. Ed effettivamente dalle versioni rese dai testimoni i colpi esplosi dovevano essere stati tre, di questo, però, solo uno aveva colpito la vittima, senza dargli scampo. Anche Filomena Pezzano ricordava di aver udito tre detonazioni «Quindi ho visto ritirarsi Luigi che aveva una pistola e una baionetta, diceva alla moglie “A Luigi l’aggio fatto, andatelo a vedere, sta miezzo alla terra” mentre la moglie si disperava “Povera me: Sono rimasta in mezzo alla strada”. Soltanto dopo, ho saputo che Michele e Luigi avevano ucciso il nipote Luigi Luongo». Ad assistere alla scena anche Gaetano Rossi «mentre raccontavo a Generoso De Vita come i Carabinieri gli avessero intimato di scendere ma Luigi Luongo fosse scappato da un’altra uscita, la Masiello ha cominciato a urlare “Correte, correte”. Luigi, che se ne stava seduto davanti casa, ha cominciato a correre verso la Chiesa, anche Michele è uscito di casa e un istante dopo ho visto anche Pasquale andare in quella direzione, trattenuto dalla moglie che urlava. Poco dopo tre colpi di pistola, Luigi è tornato con la pistola e la baionetta, è entrato in casa e poi ne è uscito inseguito dai carabinieri. Poi ho saputo che Luigi era stato il primo a vibrare un colpo di pistola e con la baionetta, è stato, quindi, Michele ad esplodere un secondo colpo». Girolamo D’Agostino aveva cercato inutilmente di fermare i fratelli Luongo «Dapprima un colpo di pistola, poi più colpi sferrati con un pugnale, ho cercato in tutti i modi di intervenire per difendere la vittima, trattenendo Luigi, l’aggressore ma sono stato ferito anch’io con il pugnale e quando ho sentito sparare di nuovo mi sono allontanato. Il Luongo è caduto a terra dopo due, tre passi esanime. Si è udito anche un terzo colpo ma esploso da lontano. Doveva essere stato Pasquale a sparare». Ad avere la peggio tra i due fratelli, Luigi Luongo, che veniva condannato dalla Corte d’Assise di Avellino a dieci anni di reclusione, per i giudici si era trattato di omicidio volontario con l’attenuante della grave provocazione.

    Floriana Guerriero





    GRANDE GUERRA

    I caduti del 15/18 secondo la ricerca di Italo e Stefano Genovese clicca qui





    LA BANDA MUSICALE

    La Banda musicale di Tufo

    di Cesare Carpenito
    (articolo pubblicato da "il Corriere dell'Irpinia")




    C’era una volta una banda musicale composta per lo più da giovani minatori, capace di giungere in pochi anni a mietere successi sulle maggiori piazze del Meridione d’Italia contrapponendosi ai grandi concerti bandistici pugliesi ed abruzzesi.
    Può sembrare una favola d’altri tempi, ma si tratta, in realtà, di una delle più belle pagine della tradizione bandistica irpina: “l’epopea artistica” della banda di Tufo.
    Si trattò di uno dei pochi concerti bandistici nati in Irpinia (possiamo ricordare tra gli altri quelli di Sturno, Montefalcione e Lapio) e nella stessa Campania non si registrarono fenomeni altrettanto rilevanti.
    La banda tufese nacque come realizzazione di un sogno, il sogno di un cittadino straordinario capace di “trasformare” un gruppo di giovani operai in un rinomato concerto bandistico: Fiore Bottiglieri.
    “Don Fiore” (come lo si era solito chiamare tra le stradine dei borghi tufesi, sintetizzando in quel “don” il rispetto per un uomo di cultura misto al grande affetto per un compaesano tanto innamorato della propria terra) era impiegato presso l’ Ufficio Imposte Dirette di Avellino e, dietro un alone di modestia, tipico delle persone grandi ma intimamente semplici, sembrava voler celare il suo spessore intellettuale: basti pensare che faceva parte “honoris causa” dell’Accademia Tiberina, una delle più antiche d’Italia. Quando però Don Fiore poteva concedersi del tempo libero, amava abbandonarsi alla sua grande passione per la musica, e non era raro che, nelle sere d’estate, le dolci note del suo flauto vibrassero lungo i vicoli del centro storico di Tufo; non a caso lo si interpellava quale maggior esperto locale al momento di ingaggiare le bande in occasione della festa del Santo Patrono, San Michele Arcangelo.
    L’orecchio perfetto ed il palato musicalmente finissimo di Don Fiore erano gli ostacoli più difficili da superare per le formazioni bandistiche che aspiravano ad esibirsi sulla piazza tufese, palcoscenico, tra l’altro, particolarmente ambìto negli anni Cinquanta: la festa di San Michele, infatti, era vista come una passerella di primaria importanza poiché, celebrandosi l’otto di maggio, inaugurava di fatto la campagna per l’ingaggio delle bande.
    Selezionare formazioni bandistiche, però, non poteva soddisfare a pieno l’estro artistico di Don Fiore, il quale continuava ad accarezzare segretamente, confidando sempre sull’appoggio della moglie “donna” Erminia, il suo grande sogno nel cassetto: la fondazione di una banda tufese.
    Il primo passo mosso in tal senso fu l’inaugurazione di una scuola musicale, affidata alla sapiente guida del maestro serinese Nicola Di Zenzo.
    La “gelosia” con cui i protagonisti di quella avventura hanno conservato i propri ricordi, ed un innegabile aiuto della fortuna, immancabile, come ben risaputo, in ogni ricerca storica, ci permettono di citare integralmente il testo in calce all’opuscolo della scuola:
    “In seguito al vivo interessamento del geniale Sig. Fiore Bottiglieri fu Cosimo, ammirevole per la sua costanza e tenacia, dopo aver superato difficoltà non lievi, è sorta in Tufo una Scuola Musicale allo scopo di creare un concerto cittadino. La Scuola ha avuto inizio il primo novembre 1950 ed ora conta oltre trenta allievi che la frequentano con assiduità ed attaccamento. I cittadini, mentre elogiano e condividono la bella iniziativa del Sig.Bottiglieri, fanno voti che tale istituzione possa progredire sempre , sia nell’interesse dei giovani che del paese.
    Il Comitato, sicuro che la nobile iniziativa trovi eco nel vostro animo che, certamente, non farà mancare una offerta perché si raggiungano le finalità desiderate, ringrazia sentitamente”.
    La risposta della cittadinanza non si fece attendere e bastò poco perché la febbre della musica contagiasse i giovani tufesi, tanto da portarli a dedicarsi ad ore ed ore di prove nel dopolavoro, presso i locali adibiti a scuola proprio nelle vicinanze di Piazza Umberto I, a ridosso di quello che , per tutti i tufesi, è sempre stato e sarà “ ‘o muro do’ travo”.
    Tufo divenne in breve un laboratorio musicale vivacissimo, avvolgendosi in una variopinta veste di suoni che non l’abbandonava in nessun momento della giornata, come ricorda anche il noto intellettuale tufese Gaetano Troisi nella sua opera “L’oro di Tufo”: - Passando per le stradedel paese si udivano suoni confusi di strumenti musicali; a volte squilli di tromba che provenivano di là dal fiume: da parte non solo di chi abitava in campagna, ma anche di chi , fra un impegno e l’altro, utilizzava al meglio il suo tempo.
    La diligenza di ciascuno si tramutò in dovere febbrile: bastò poco più di un anno per mettere su la “squadra” e sentirla suonare.
    Dietro le quinte lavorava il promotore dell’impresa: pagare le prestazioni del maestro, il fitto dei locali adibiti a scuola, acquistare strumenti musicali in dotazione della banda ( e talvolta anche per l’allievo che non poteva consentirselo), trovare il sarto per le divise. Soprattutto bisognava suscitare entusiasmo e tenere alto il morale. E questo Don Fiore fece in modo eccellente con l’aiuto dei suoi validi collaboratori. -
    Dopo le prime esibizioni il concerto bandistico tufese cominciò ad acquistare sempre maggiore rinomanza e, con l’ingaggio di solisti esperti, giunse in breve ad imporsi come una delle maggiori realtà bandistiche dell’epoca.
    Centinaia sono i racconti dei musicisti tufesi che meriterebbero di essere qui riportati , racconti che narrano di lunghissime processioni estive sotto il sole cocente delle Puglie, di corse contro il tempo per riuscire a reclutare un sostituto solista a poche ore dall’inizio del concerto serale…
    Mi piace però concludere ricordando una delle serate di maggiore gloria per i giovani minatori tufesi prestati alla musica (o viceversa…), riportando la testimonianza raccolta dal Troisi direttamente dalla viva voce del figlio di Don Fiore: - Verso la fine della nostra storia musicale, ci fu una serata memorabile. Nella piazza di Tufo, durante la festa di San Michele, due bande erano a confronto: Acquaviva delle fonti, rinomatissima banda pugliese diretta dal maestro Adolfo Di Zenzo, fratello del nostro maestro, e la banda tufese, che si confrontava con quanto di meglio in quel momento esisteva sulla piazza musicale.
    La serata fu indimenticabile: grande festa, grandi riconoscimenti , fiori e confetti per tutti i protagonisti.
    E un bouquet di fiori anche per mia madre, che aveva accompagnato i sacrifici di mio padre, dei collaboratori e di tutta la banda. Mio padre fu portato in trionfo, in piazza…portato a spalla dai minatori presenti e da altri giovani fra un mare di gente.
    Tutto il paese era unito e sentiva appartenergli un’impresa che fu memorabile. -

    C.C.







    LA LIBERAZIONE SECONDO ZI PASQUALE

    Intervista a Pasquale Buonomo, membro del Comitato di Liberazione Nazionale (sez. di Tufo)

    Di Cesare Carpenito

    Troppo spesso, e forse con ovvie e giuste ragioni, la storiografia ufficiale si sofferma ampiamente su quelli che furono i fatidici giorni che seguirono all’ “Otto Settembre” al Nord della linea gotica, tralasciando gli effetti di questa straordinaria “rivoluzione” socio-politica nel Sud Italia, avvolgendo in una fitta coltre d’oblìo le tante storie dei nostri piccoli centri meridionali.
    Il nostro intento, dunque, è proprio quello di andar a scavare tra le pieghe di una “storia minore” eppur anch’essa alla base della nascita della nostra “Repubblica democratica fondata sul lavoro…”.
    Abbiamo ascoltato, a tal fine, la voce di uno straordinario referente irpino: Pasquale Buonomo, nato il lontano quindici di agosto del 1914 a Tufo e, tra l’altro, rappresentante e firmatario del “Partito Socialista Italiano” nel Comitato di Liberazione Nazionale nato nella “Città del Greco”.


    L’AVVENTO DEL FASCISMO

    Il racconto di Pasquale Buonomo (per tutti, a Tufo, “Zì’ Pasquale”), parte dagli anni della sua adolescenza, coincidenti con l’affermazione nel Belpaese dei gerarchi del Fascio Littorio.
    A Tufo, come in tutta la Penisola, l’inizio degli anni Venti, come ho potuto più volte sentire nei racconti di mio padre, ha rappresentato l’epoca della grande contrapposizione politica tra i fascisti della prima ora e i nazionalisti (ovvero i monarchici).
    Tanti sarebbero gli episodi da citare riguardo quel periodo – sottolinea il signor Buonomo – ma ne voglio segnalare uno in particolare.Durante un comizio dell’allora sindaco di orientamento monarchico, svoltosi nella piazza principale del paese, vi furono una serie di forti provocazioni da parte dei fascisti, che culminarono in una vera e propria aggressione al sindaco da parte del loro leader, il quale cercò di strappargli la fascia tricolore dal petto: a quel punto un vigile, al fine di sedare gli animi, estrasse la pistola.In breve in piazzà scoppiò il panico, ma il tutto si risolse subito dopo.Questo clima rovente aleggiò per il paese in un continuo crescendo finché, il ventotto ottobre 1922, Mussolini compì la storica “Marcia su Roma”.
    Nel nostro paesello fu nominato podestà Fiore Bottiglieri e, sinceramente, soprattutto sul piano nazionale, i primi anni del Fascismo sembrarono portare solo “giovamenti” ma, successivamente, il Duce si imbarcò in una serie di campagne militari per le quali l’Italia non era affatto pronta: si trattava di sforzi bellici ben al di là delle nostre possibilità.

    LO SCOPPIO DEL CONFLITTO

    Il signor Buonomo, come mi racconta con grande ricchezza di particolari, partì il nove giugno del 1940. - Il dieci scoppiò la guerra – sottolinea – la notizia ci giunse mentre ci stavano ancora distribuendo le divise.-
    Sarebbe cominciata, di lì a poco, un’Odissea che lo avrebbe portato, insieme al battaglione di bersaglieri di cui faceva parte, prima sul fronte francese, poi a Ferrara, a Brindisi, in Albania (prima sul fronte greco e , poi, su quello montenegrino, sul quale “presero” Ragusa) e, al ritorno in Italia, in Calabria, sull’Aspromonte e,infine, sulla Sila.
    E’ qui che la storia del bersagliere Buonomo giungerà ad un importante svolta.
    Con l’approssimarsi delle festività pasquali, chiesi ai miei superiori una licenza di tre giorni (dal Venerdì Santo a Pasqua) più due necessarii al viaggio.Ottenutala, mi recai alla stazione di Crotone, da dove sarei dovuto partire e, proprio lì, incontrai un altro militare irpino, più precisamente di Petruro, che ben conoscevo, dato che suo padre lavorava presso le Miniere Di Mazro di Tufo.
    Avendomi riconosciuto, ed essendo venuto a conoscenza della mia imminente partenza, mi affidò una lettera per suo padre.
    Appena giunto a Tufo, ovviamente dopo aver finalmente riabbracciato i miei cari, decisi di portare la lettera al destinatario presso la Miniera di zolfo.
    Una volta lì, riconosciuto dal direttore dello stabilimento, il quale si intrattenne a chiacchierare con me, ricevetti una straordinaria proposta: avrei potuto ottenere l’esonero grazie alla sua intercessione.
    Non smetterò mai di ringraziare quell’uomo: agli inizi di giugno infatti, grazie al suo intervento, ottenni il tanto sospirato esonero, e tornai a Tufo nel giorno quattro, incontrando, al mio rientro, la processione del “Corpus Domini”.
    Decisi di seguirla in segno di devozione, ancor prima di rientrare a casa>>.

    LA LIBERAZIONE

    Giungiamo finalmente al momento cruciale della nostra piccola grande storia “di provincia”: i giorni della “Liberazione”.
    Le truppe alleate entrarono a Tufo il ventinove settembre - attraverso il percorso tracciato dalla linea ferroviaria - , come ci informa il signor Buonomo.
    I tedeschi, in ritirata, spararono vari colpi di mortaio, facendo anche una vittima, - una signora della frazione Santa Lucia -, e facendo saltare in aria -’O ponte ‘e fierro” - e altri importanti punti di collegamento.
    Noi tufesi, finchè le acque non si calmarono, ci ritirammo nelle campagne della zona, al fine di scampare ai bombardamenti.
    Io e la mia famiglia ci nascondemmo a San Paolo (ndr. una delle frazioni di Tufo) e, da quelle alture, era possibile, e al contempo terribile, poter distinguere chiaramente il bagliore delle esplosioni e le lingue di fuoco dei lanciafiamme, usati dagli americani soprattutto per attraversare le gallerie le quali, altrimenti, si sarebbero trasformate in ottimi punti per eventuali imboscate da parte dei tedeschi.
    L’avanzata americana si protrasse fino alla località, nei pressi di Altavilla Irpina, chiamata Ciardelli.
    A quel punto, tutti ritornammo in paese.
    E’ da sottolineare, tra l’altro, che poche o nulle furono le violenze nei confronti della popolazione sia da parte degli americani che dei tedeschi, i quali, al massimo, si limitarono a sottrarre i pochi beni alimentari ancora nascosti in qualche casa: salumi, vino e, addirittura, interi maiali-.
    Ritornati in paese, dunque, la vita, seppur “forzatamente”, doveva continuare e, contestualmente, si doveva tornare a lavoro.
    L’intera comunità sembrava essersi svegliata di soprassalto da un brutto incubo che, stranamente, aveva però lasciato reali ferite al mattino.
    E’ in questo particolare contesto che Pasquale Buonomo parteciperà alla nascita del locale Comitato di Liberazione Nazionale.
    -Tornato a lavoro, fui inviato, insieme ad un collega, a “fare la pozzolana”.
    Mentre stavamo portando a termine il nostro compito, fummo raggiunti dal signor Iennaco, il quale ci invitò ad una riunione per discutere, appunto, della nascita del Comitato di Liberazione anche a Tufo.
    Il mio collega non se la sentì di prender parte a quell’assemblea, ma io, più deciso che mai, mi ci recai comunque.
    In quella stanza eravamo in una quindicina di persone: il punto era scegliere i quattro firmatari rappresentanti dei quattro maggiori partiti impegnati nella Liberazione, ovvero il Partito Socialista Italiano, il Partito Comunista Italiano, la Democrazia Cristiana e la Democrazia del Lavoro.
    A firmare fummo io per il Partito Socialista (nel quale aveva militato, ovviamente prima dell’avvento del regime, anche mio padre) e, per gli altri partiti Antonio Di Vito, Fiore Nigro e Alberigo Barile.
    La sezione del Comitato fu subito inaugurata all’interno di quella che, fino ad allora, era stata la sezione del PFN, in virtù della decisione, presa a livello nazionale, di far passare tutti i locali del partito Fascista alle varie sezioni locali del Comitato di Liberazione.
    Il secondo passo da compiere – ci racconta il signor Buonomo – fu quello di trasformare il Sindacato Fascista in Sindacato Democratico e, anche in quell’occasione, fui tra i firmatari, stavolta insieme a Celestino Luciano, Alfonso Di Dio e Angelo Cennerazzo.-
    Giunse poi quello che, ovviamente, rappresentò il passaggio puù delicato nella prima fase di democraticizzazione degli enti: l’allestimento di una giunta.
    Ci giunse l’ordine di scegliere quattro assessori ed un sindaco.
    La scelta degli assessori sarebbe stata interna alle singole sezioni di partito, mentre il nuovo sindaco sarebbe stato scelto da tutto il comitato.
    Io fui nominato assessore dal Psi, ottenendo sessantadue voti su settantacinque iscritti; gli altri assessori furono Fiore Nigro, Antonio Di Vito e Michele Ciampi, il quale fu scelto in quanto “rappresentante” della frazione di San Paolo (che allora contava circa trecento-trecento cinquanta abitanti) sebbene non fosse iscritto a nessun partito.
    Ora ci aspettava la scelta più difficile: quella del sindaco.
    Dopo lunghe riflessioni, però, decidemmo di far ricadere la nostra scelta su quello che, fino ad allora, era stato il podestà di Tufo, ovvero Placito (detto Placentino) Florio, il quale aveva sostituito il primo podestà tufese Bottiglieri.
    Ci rendevamo conto che poteva essere una scelta discutibile ma, d’altro canto, si trattava di un uomo degno di tutto il rispetto per ricoprire quella carica e, tra l’altro, mai aveva perpetrato soprusi nei confronti della popolazione.
    Dopo poco tempo, comunque, per raggiunti limiti d’età, Placito Florio decise di dimettersi e, dunque, cadde automaticamente anche la nostra giunta, la quale fu subito sostituita da una nuova giunta composta da Michele Buonomo (mio fratello), Giuseppe Grosso, Giuseppe Zuzolo, Giuseppe Di Vito ed Alberigo Barile come sindaco.
    Fu questa la giunta che guidò il paese fino alle elezioni del 1946, valide per la Costituente, le quali conferivano un mandato di due anni agli eletti, in vista di quelle che sarebbero state le prime vere e proprie elezioni “generali” dell’Italia libera nel 1948. -


    La redazione de “Il Corriere dell’Irpinia” ringrazia vivamente il signor Pasquale Buonomo per la gentile collaborazione e la disponibilità dimostrata nel corso dell’intervista rilasciata al sottoscritto in data 23 gennaio 2009.
    Di fondamentale importanza, infatti, è risultata la sua ampia e dettagliata testimonianza storica al fine di riscoprire tasselli della nostra microstoria irpina.






    L'INCENDIO IN MINIERA

    Incendio in miniera…
    di Cesare Carpenito


    Ci sono pagine della storia della nostra terra che il tempo ha relegato nell’oblìo ma che, scrutando bene, è ancora possibile leggere nello sguardo di chi è rimasto indelebilmente segnato dal lento scorrere della vita.
    Tra quelle pagine della memoria irpina, ormai ingiallite, è relegato anche il ricordo di una drammatica giornata della storia di Tufo, risalente all’inizio degli anni Cinquanta: l’incendio alle “Miniere di Marzo”.
    Cesare Carpenito, operaio presso le miniere di zolfo tufesi dal 1946 al 1984, conserva ancora ben impressi nella memoria i momenti di paura di quel giorno: < All’improvviso si sparse la voce che c’erano grossi problemi nel sottosuolo e cominciammo a correre verso l’ingresso delle gallerie: c’era molto fumo e gli operai presenti sul luogo, tra cui mio suocero, Michele Di Pasqua, che a quell’epoca ricopriva il ruolo di “arganista”(1), ci spiegarono che nelle gallerie doveva essersi sviluppato un incendio e che qualcuno era rimasto bloccato, poiché il martelletto (2) continuava a suonare.
    In attesa dell’arrivo dei soccorsi cercammo tutti di renderci utili, ma la situazione era davvero drammatica e l’arrivo dei pompieri non migliorò di certo le cose.
    Appena sopraggiunti all’ingresso della galleria, infatti, quelli che “sarebbero dovuti essere” i soccorritori, si mostrarono subito spaventati; uno di loro, il più alto, lo ricordo bene, chiese quanto fosse profonda la galleria e saputo che, per raggiungere la zona interessata dall’incendio, sarebbe stato necessario percorrere circa un centinaio di metri, per di più “calati”, come usavamo dire noi, si mostrò subito preoccupato ma, come preso da un sussulto d’eroismo, si lanciò, lui solo tra tutti i pompieri, nella galleria, porta d’entrata di quell’inferno, portando la bombola d’ossigeno sulle spalle.
    Sembrava deciso a salvare da solo i minatori intrappolati nel sottosuolo ma, dopo nemmeno dieci metri di discesa, tornò sui suoi passi, proferendo una sentenza che, per tutti noi, risultò più pesante di un macigno: “Si nun si po’ fa, nun si po’ fa!”.
    Fu solo il gesto eroico di due nostri amici e compaesani, Gennarino Barbaruolo e Ranieri Luciano, due giovani sui trent’anni che, pur di salvare i compagni imprigionati dalle fiamme, si lanciarono nelle gallerie, rischiando di non uscirne mai più>>.
    Il gesto di quei lavoratori, rimasto impresso nella memoria di tutti i minatori, quale paradigma di coraggio ed altruismo assoluti, veniva ricordato, in un’ intervista del 24 febbraio 1983 raccolta dal noto studioso tufese Gaetano Troisi, anche da Michele Moccia: < Quando fu in mezzo a noi, disse: -Non so se ho spento il fuoco, ho gettato l’acqua così…-A poco a poco, però, l’ aria della miniera si fece più fresca.
    Dopo un certo tempo un altro minatore, Enrico Capone, si fece avanti e si offrì per la verifica. Indossò la maschera e scese al sesto livello. Laggiù vide che il fuoco era davvero spento. (…) Uno dei pompieri si lanciò nella galleria, scese fino in basso e tornò in superficie con uno sulla spalla, l’altro trascinandolo per terra: erano Antonio Zuzolo e Giovanni Guerriero. Il terzo, Peppe Campanile, era uscito poco prima da solo, a piedi>>.(4)
    Dei tre sfortunati minatori coinvolti nella vicenda, solo uno non ce la fece, dopo mesi di sofferenza: Antonio Zuzolo.
    “Vox populi” vuole che, la salute già cagionevole di Zuzolo, oltre al fumo di quell’incendio dovette subire anche un altro duro colpo, la malcelata felicità di molti minatori, per lo più originari di paesi limitrofi, che salutarono con felicità l’incidente, poiché vedevano in Zuzolo uno dei colpevoli dei licenziamenti del 1948 che coinvolsero, tra gli altri, molti loro compaesani; in realtà tra i minatori interessati da quell’ondata di licenziamenti figuravano anche molti tufesi, poiché furono elaborati criteri generali, da una commissione di cui faceva parte anche un noto sindacalista tufese della Cgil, Michele Genovese; il criterio fondamentale fu quello del licenziamento dei cosiddetti “doppioni”(5).
    Tra gli anziani, c’è chi giura di aver sentito festeggiare in una casa del paese durante il passaggio del feretro di Antonio Zuzolo.
    Sulla cause di quella sciagura, che divise in due la storia ultracentenaria delle “Miniere di Marzo”, a distanza di oltre cinquant’anni, ancora non si è fatta piena luce.
    Diverse e a tratti contraddittorie le tesi dei minatori testimoni della tragedia, una nebbia della memoria dovuta soprattutto al fatto che l’incidente si sviluppò nel sottosuolo e, quindi, nessuno assistette in prima persona all’errore umano da cui scaturì la combustione.
    Due, comunque, le ipotesi più diffuse e attendibili: secondo una delle tesi, la causa scatenante dell’incendio sarebbe attribuibile ad un giovane operaio di Torrioni che, sceso in galleria per lo svolgimento di ordinarie mansioni, avrebbe appoggiato una lampada, usata per farsi strada lungo il buio labirinto delle miniere, ad una parete con minerale di zolfo, andandosene poi, a lavoro completato, senza accorgersi della piccola macchia gialla lasciata a bruciare sulla parete; secondo l’altra ipotesi, invece, il tragico errore sarebbe stato commesso da due di quegli stessi tre minatori coinvolti nel susseguente incendio, questi infatti, nel ricollocare nella giusta posizione un carrello rovesciatosi sui binari, avrebbero appoggiato la lampada alla parete, senza rendersi conto di aver dato il via ad una combustione.
    Nessuno sarà mai in grado di far luce su quegli attimi fatali, che segnarono la storia di un’azienda e, ancor più tragicamente, quella di tre umili operai, ritrovatisi intrappolati in un inferno di fumo, fiamme e zolfo mentre cercavano di “guadagnarsi il pane” lavorando duramente a decine e decine di metri nel sottosuolo; nessuno sarà in grado né interessato a far luce su un incidente di oltre cinquant’anni fa, ora che tra i ruderi di quelle miniere non risuona che il silenzio.
    Quella giornata sopravvive però nella memoria di chi la visse, dei minatori terrorizzati che cercavano di salvare i propri compagni, delle donne e dei bambini che, avvisati dall’allarme corsero dinanzi ai cancelli sbarrati della miniera, pregando, piangendo, sperando che in quel cunicolo di fuoco non fosse rimasto intrappolato il padre, il marito…
    Da quel maledetto incendio, però, emersero anche le mille contraddizioni latenti nella vita di uomini che lavoravano braccio a braccio, sotto terra, da anni: un odio così radicato da rendere immuni ad un dramma tanto grave contrapposto all’amicizia più sincera, un tipo d’amicizia nata tra i cunicoli, dove non c’era altro da dividersi se non la fatica,la fame e i sacrifici.
    Tutto questo venne fuori da quell’incidente lavorativo e, su tutto, i minatori porteranno per sempre nelle loro memorie il gesto di quei ragazzi che, pur di non condannare ad una morte certa e terribile i loro compagni di miniera, preferirono rischiare la propria vita.




    Note

    1)Veniva definito “arganista” l’addetto all’argano, strumento che regolava le corse dei carrelli.

    2) Prima dell’avvento del telefono in miniera, per le comunicazioni con il sottosuolo si usava un “martelletto”, consistente in un filo di ferro filato alla cui estremità, all’imbocco della galleria, era appeso un pezzo di ferro o una ruota di carrello. Quando il filo veniva tirato, il pezzo di ferro batteva contro un altro pezzo di ferro appeso al muro e suonava. Esisteva un codice per le comunicazioni attraverso tale apparecchiatura: un colpo indicava la richiesta “mandare giù il carrello”; due colpi “tirarlo su”; tre colpi “fermarlo”.

    3) Sulla causa scatenante dell’incendio, come si spiega successivamente nel testo, esistono tutt’oggi due tesi.

    4) Esiste un’altra versione nella ricostruzione di questo momento: Giuseppe Campanile sarebbe uscito per primo dalla galleria attaccato ad un carrello, Antonio Zuzolo e Giovanni Guerriero, invece, sarebbero tornati in superficie in un secondo momento, anch’essi aiutandosi con un carrello.

    5) Venivano definiti “doppioni” i minatori membri dello stesso nucleo familiare. In linea di massima l’azienda licenziò i figli lasciando al proprio posto i padri.

INFO&CONTACT

NEXT EVENTS

LAST EVENTS

TUFO

TUFO GRECO FESTIVAL..
CAMPANIA - DATE: 04/09/2015 - START: 18:00
PHOTO EVENT NOT PRESENT