I FESTIVAL SONO UNA SPECIE A RISCHIO?

SONO DA ANNI I TRIONFATORI DELL'INDUSTRIA MUSICALE, MA CORRONO DEI RISCHI

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PRIMO

I festival vanno e vengono. Se ne aprono, se ne chiudono. Oppure si possono anche prendere una pausa, come ha fatto l’anno scorso il nostro amatissimo Dancity, di cui siamo felicissimi di annunciare il ritorno quest’anno.

SECONDO

E la notizia che l'inglese Secret Garden Party ha annunciato che questa sarà la sua ultima edizione? Lo conoscete? Se la risposta è no non c’è nulla di male: non è Coachella, non è Glastonbury, non è il Primavera, non è Roskilde o lo Sziget. È addirittura un festival che alla sua prima edizione ha radunato 1000 persone, praticamente una riunione di condominio allargata e che pur essendo cresciuto di anno in anno non è mai arrivato a radunare folle oceaniche (anche se i 25.000 che erano diventati un risultato reale negli ultimi anni come presenze complessive è un dato che in Italia, terra dove notoriamente è difficilissimo fare festival, farebbe e fa invidia). Si tratta di uno dei decani tra quelli che si potrebbero definire “boutique festival”.

TERZO

Però questa cosa ci ha colpito. Esattamente come ci colpì la chiusura del Big Chill, del “vero” Big Chill (ci furono tentativi di rianimarlo con altre proprietà ma perdendone completamente lo spirito originale), altro “boutique festival” capace negli anni di crescere. Sempre più spesso si sente in giro la lamentela che le line up dei festival sono ormai “tutte uguali”: magari è una esagerazione, però che ci sia una omologazione è vero. I nomi che girano sono quelli, ma soprattutto i nomi che tirano sono quelli. Sia nel grande filone dei festival rock sia nel grande filone dei festival elettronici: è raro che ci siano delle line up che ti sorprendono, che ti facciano dire “Uh, questa cosa è completamente diversa da tutto il resto”. Ci sono magari gli eventi iper-specializzati che parlano a una nicchia ben precisa più o meno vasta, ma pure lì il fattore sorpresa è zero visto che essendo la nicchia iper-specializzata è chiaro che arrivi preparata un po’ su tutto. È paradossale che in un’era dove l’ascolto della musica si è “liberalizzato” (c’è internet: i tuoi ascolti non dipendono più da quello che decidono i grandi network radiofonici o televisivi) in realtà non c’è più varietà di prima nel panorama degli eventi festivalieri dal vivo. O meglio: il pubblico non ha aumentato la sua propensione a volersi far sorprendere. È come se questa grande abbondanza di ascolti possibili avesse avuto un sinistro effetto-rimbalzo: dal vivo la gente vuole farsi rassicurare. Vuole sentire quello che già conosce. Vuole trovarsi in qualcosa che già conosce, qualcosa di cui puoi leggere chiaramente le coordinate artistiche. Ora puoi sentire tutto. A casa. Nel farlo dal vivo hai smesso di amare la sorpresa: non la cerchi più, non ti fa sentire a tuo agio, non la vuoi.

QUARTO

A questo aggiungiamo che con le vendite dei dischi crollate il live diventa la vacca da mungere per le varie strutture industriali e manageriali legate a una band o a un artista. E nel mercato del live l’unica vera crescita decisa in percentuale nell’ultimo decennio è stata quella dei festival, non quella dei club dove si fa musica dal vivo durante l’anno (prova ne è il fatto, stando all’Italia, che ora anche per una band di buona importanza è impossibile fare i tour di un tempo, dove esci e in un mese giri l’Italia: ora no, ora devi fare concerti solo nei weekend, non esistono quasi più locali che fanno musica dal vivo durante la settimana, perché è diventato economicamente insostenibile). Risultato di tutto questo? Se non fai soldi con i dischi devi fare i soldi con i live, e i cachet si impennano. Se i soldi li fai nei live e se il fenomeno trainante dei live sono i festival quando sei un minimo affermato e sei considerato tra gli headliner del festival spesso chiedi ancora più soldi di quelli che chiederesti pe una data normale (un tempo, era il contrario).

QUINTO

Mettete insieme tutto questo: il risultato è letale per chi vuole giocare “fuori dal coro”, per chi vuole fare festival atipici, strani, non catalogabili, non in grado di generare particolari economie di scala. È un peccato, ma è anche una preoccupazione: perché a lungo andare questo può portare a una macdonaldizzazione dell’offerta musicale. Quindi viva il Coachella, viva il Primavera, viva i grandi festival, ma supportate anche chi crea eventi di scala minore più atipici e bizzarri per quanto riguarda l’assembramento della line up (per fare un esempio in Italia: Ypsigrock, che ha dalla sua una location – la siciliana Castelbuono – tanto atipica quanto strepitosa). Hanno bisogno di voi in un mercato sempre più competitivo dove il rischio è quello di arrivare alla situazione che ben conosciamo in altri settori dell’economia: vince solo la grande distribuzione, le piccole botteghe chiudono. Molte piccole botteghe erano gestite male e in modo sciatto, ci stava che chiudessero. Ma altre invece non meritavano di essere stritolate dalla forza economica della grande distribuzione, ed è un po’ un peccato non ci siano più.

FONTE: redbull